A
Patrasso c’è una squadra di calcio, si chiama Panachaiki, ha le maglie
rossoenere, l’hanno fondata gli anarchici. Anarcocristiani, anarcocomunisti,
anarcovattelapesca, importa poco. Gli anarchici. Gente che non gli andavano
bene le cose così com’erano. Gente che come gli ippopotami rapiti alla savana,
a farsi rinchiudere in una gabbia, a mangiare il pastone dell’ingiustizia, ci
stava mica. Gente che né Dio, né padroni, né schiavi, né servi.
Sai
pure qual altra, di squadra?
L’Argentinos
Juniors. La prima squadra di Maradona. Di Riquelme. Di Redondo. Sì, quelli.
Quelli del quartiere La Paternale. Pure
quella: gl’anarchici.
Dovete
sapere che nei primi anni del Novecento, quando han messo su baracca e
burattini e le mamme dei giovanotti hanno cucito la prima banda bianca
trasversale sulle maglie rosse di cotone pesante, in quegli anni là la squadra
si chiamava “Martiri di Chicago”.
Chi
erano i martiri di Chicago?
Primo
maggio, è il primo maggio del milleottocentottantasei. Chicago. Stati Uniti.
Il
primo maggio del millottocentottantasei a Chicago i sindacati decidono che i
tempi sono maturi per scendere in piazza e battersi e sventolare le proprie
rivendicazioni: la giornata lavorativa non può più essere più lunga di otto
ore. Sfilano in cinquecentomila. Son tante persone, cinquecentomila. I
signorotti dell’industria, i padroni, come reagiscono? Male, reagiscono. Il
giorno successivo chiudono le fabbriche, fanno una serrata: anche i padroni
delle fabbriche possono fare sciopero, sventolare le proprie rivendicazioni,
scendere in piazza magari no, se ne restano negl’uffici rilucenti, sorseggiando
bourbon. Lo sciopero delle industrie, quando non lo fanno i lavoratori ma i
padroni, si chiama serrata.
Il
giorno successivo ancora, siamo al tre maggio: stavolta sono i lavoratori che
vogliono tornare a fare sciopero. Non tutti, però. Qualcuno sì. Qualcun altro
no. E quelli che no: entrano sfondando i picchetti dei colleghi. Si fanno
coraggio e abbassano la testa e timbrano il cartellino e si spaccano il culo
per il padrone ingrato. E quando finisce la giornata lavorativa, e suona la
campana di fine turno, e quelli che son voluti entrare per forza si avvicinano
ai cancelli per guadagnare l’uscita, ecco, in quel momento scoppia il
putiferio. Ci scappa il morto, pure. E subito a dirsi: non può essere che ci
scappa un morto, durante una serrata, durante uno sciopero per giunta dei
padroni, che qua gli scioperi li facciamo solo noi, e per la giustizia, mica
per morire. Domani ci riuniamo a Haymarket e gli facciam vedere noi, di che
pasta siamo fatti. Il quattro maggio, il quattro maggio millottocentottantasei
Haymarket è l’epicentro della rivolta, dell’insurrezione, degli ora basta.
La
polizia carica per sgomberare i manifestanti.
Qualcuno getta una bombacarta.
Un
provocatore.
Un insurrezionalista.
Una.
Bomba.
I poliziotti lì van fuori di
cranio. Non ci si capisce più una sbercia. Sparano alla cieca. Chi cazz’è stato
a lanciare la bomba? Otto poliziotti perdono la vita, quasi tutti uccisi dal
fuoco amico, si dice così, quando il proiettile parte dalla canna dell’arma di
un commilitone tuo: fuoco amico. Come se il fuoco possa essere amico o nemico:
il fuoco brucia. Il fuoco fa male. Sempre. Muoiono otto poliziotti e bisogna
cercare un colpevole. Un capro espiatorio. Gli anarchici. Questi nullafacenti
perdigiorno che Dio no, i padroni no, gli schiavi no, ma i morti sì, i morti
con le bombe e le fucilate sì. Ne arrestano otto. Ogni poliziotto morto un
anarchico, ogni anarchico un’ora di lavoro per la quale lottare.
Il numero otto, a guardarlo bene, ricorda il simbolo del loop, se lo sdrai su un fianco.
Certe cose tornano e ritornano ancora.
Lo sfruttamento. La ribellione.
A
guardarci bene, c’è sempre qualcosa per cui combattere. Per cui buttarsi
sull’asfalto e lottare.
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