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Lavoro nel posto in cui lavoro da tredici anni, che a raccontarlo in giro non ci crede mai nessuno: ma come sarebbe a dire, che anno sei? Ottantuno. Machedavéro da tredici anni? Eh.
Lavoro nel posto in cui lavoro da tredici anni, che a raccontarlo in giro non ci crede mai nessuno: ma come sarebbe a dire, che anno sei? Ottantuno. Machedavéro da tredici anni? Eh.
Mi reputo un privilegiato, e ci sono state occasioni in cui sì, mi sono vergognato d'averci questo privilegio.
Ho firmato il primo contratto che ero ancora imberbe o quasi, un contratto d'apprendistato; l'università accantonata, la testa rasata, otto anelli su dieci dita e i baggy jeans nell'armadietto, giacchecravàtta che figurati se mi lascio imbrigliare, io, dalle trame viscose del lavoro, andavo ripetendomi.
Un anno e mezzo più tardi mi han chiamato per la leva obbligatoria, son stato l'ultimo, penso, a partire militare, che poi non ho fatto il militare, ma guidato ambulanze per la Misericordia. L'azienda per la quale ero contrattualizzato, congelato per la leva, ha fatto un ridimensionamento, e m'han licenziato, anche se non è che si può licenziare così un apprendista, vieppiù sotto leva. E infatti: abbiam fatto vertenza, col sindacato, è stata emanata un'ingiunzione di reintegro, insomma, s'è messo in moto quell'ingranaggio che certe volte s'inceppa, anche se nel mio caso no, non s'è inceppato, son stato fortunato.
Col lavoro che faccio da tredici anni mi sono pagato gli studi, di notte sui libri la mattina a far gli esami e il pomeriggio a lavoro. Col lavoro che è il mio lavoro mi pago il mutuo per la casa. Il mestiere che faccio, spesso lo faccio a lavoro. Due dei tre libri che ho scritto li ho scritti di notte, mentre ero in turno, per dire.
Qualche mattina fa non lavoravo.
Succede che quando sono a lavoro faccio le cose di lavoro che mi piace fare a lavoro, e quando non sono a lavoro faccio le cose di mestiere che mi piace fare quando non sono a lavoro. La mia parola preferita, una delle mie parole preferite, è lavorìo: a casa mia han sempre decantato l'elegia dell'essere indaffarati, ché la vita è un mozzico, dice mia nonna.
Sono andato in biblioteca a cercare Il lavoro culturale di Bianciardi, avevo trovato una citazione in Amianto di Alberto Prunetti e m'era venuta voglia di rileggere quel passo in cui Corinto spiega com'è che andrebbero le cose, se comandasse lui, che tipo chi vuole fare il ragioniere deve meritarsi il posto da ragioniere portando al secondo piano un sacco pieno di polvere di gesso, e poi si vedrà.
Alla biblioteca della città che è la mia città, che è pure dove lavoro, e dove svolgo il mio mestiere, poi, m'han prima chiesto se il nome dell'autore era proprio proprio Bian Ciardi (la biblioteca è intitolata ad Alessandro Cialdi, comandante generale della marina pontificia nell'ottocento, magari m'ero sbagliato ad arrotare la èlle), poi han capito che sì, si trattava dell'autore de La vita magra (sic) ma no, Il lavoro culturale non c'era. Allora sono andato in libreria e me lo son comprato. Poi ho scoperto che a casa ce l'avevo già, nell'edizione de I Bianciardini, quelli che somigliano ai Millelire di Stampa Alternativa. Mi capita spesso di aver voglia di leggere un libro che non ricordo d'avere già, allora lo compro, e poi ne ho due, sono problemi che han solo i lettori selvaggi.
Adesso uso l'uno come segnalibro dell'altro.
A pagina 73 dell'edizione UE Feltrinelli de Il lavoro culturale di Bianciardi, 43 dell'edizione mignon, c'è un professore - un lavoratore dell'industria culturale - che dice "una sorta di bracciantato intellettuale [...] Oggi l'insegnante in nulla, se non nella diversa prestazione d'opera, differisce dal bracciante che il latifondista ingaggia per le faccende stagionali". Qualche riga dopo, una professoressa rincara "Al provveditorato [...] facevano, scusando il termine, schifo, davano il posto a chi aveva più raccomandazioni [...]".
Precisare che ILC sia del Cinquantasette, e che sostituendo a insegnante qualsiasi altro ruolo dell'industria culturale d'oggi (redattore, correttore di bozze, traduttore, ufficio stampa) il risultato non cambi, o che niente sia davvero cambiato in cinquant'anni sarebbe un gesto utile solo a glorificare la memoria del maresciallo Jacques de La Palice, quindi anche no.
Ieri l'altro c'è stato un seminario del PD a Casa dell'Architettura, al qual è intervenuta anche Chiara Di Domenico.
Conosco Chiara da poco, e in generale molto meno di quanto vorrei: ho apprezzato il suo lavoro nel circolo Fortebraccio, e son stato molto felice quando m'ha invitato a Mal di Libri l'anno scorso. Ho ascoltato con attenzione il suo intervento, per molti versi degno di nota. Mi è piaciuto il pensiero dedicato alla memoria di Isabella Viola, e la testimonianza di un mondo, quello del precariato, che conosco come si conosce la tabellina del cinque, lambendolo nell'esercizio del mio mestiere, pur non essendomecene imbattuto nell'esperienza del mio lavoro. Mi è piaciuta la stoccata a Fubini, e le citazione di Delitto e castigo, e pure la metacitazione di Impastato quando cita Majakovskij. Ho trovato furbo al punto giusto le mot juste "se non si hanno regole non si possono infrangere".
Per come la vedo io, l'intenzione di Chiara, in quell'intervento, era quello di porre un problema (quello del precariato, soprattutto nel lavoro culturale), non di sollevarne un altro.
E non si tratta di una sottigliezza semantica, quanto di una differenza notevole, almeno quanto quella tra meteora e meteorite (citando Matteo Trevisani).
Matteo è una delle persone che avrei dovuto incontrare venerdì sera, quella stessa sera, a Roma, a San Lorenzo, ch'è un sacco di tempo che non ci vediamo; e poi avrei dovuto rivedere anche Daniela Primerano di Les Flaneurs, Simone Ghelli di Scrittori Precari, Carolina Cutolo di Scrittori in Causa, gentebèlla che stimo e che è impegnata da un tot a comprendere, e una volta compreso debellare, fin dove possibile, le incrinature (spesso metastatiche) di meccanismi editoriali che ledono e minacciano tanto il Bello quanto il Giusto, lavorativamente parlando, ch'è di questo che trattiamo. Venerdì sera si faceva questo reading collettivo, I lettori selvaggi, organizzato da Filippo Nicosia e Emanuele Kraushaar, al quale avrei dovuto essere presente anch'io, mentr'invece no, non ci sono andato, e ne chiedo scusa a Filippo ed Emanuele, qua. Non sono andato a esercitare un mestiere, quello di lettore, perché ero impegnato a espletare un lavoro, quello che faccio per pagare il mutuo.
M'è dispiaciuto assai, perché avrei alzato il tasso di caribe, indossato la cintura nera di latinoamericanità e avrei letto una poesia di Derek Walcott, Vulcano (si trova in Mappa del nuovo mondo), soprattutto quel passo in cui dice
Si potrebbe anche smettere di scrivere | per seguire i segnali dei grandi - un lento | fuoco - e diventare, invece, | il loro lettore ideale, ruminante, | vorace, che antepone l'amore | per i capolavori al tentativo | di ripeterli oppure superarli | e diventare il più grande lettore al mondo.
Poi avrei letto, lontano dal tentativo di ripeterlo o superarlo, un passaggio de Il secolo dei lumi di Alejo Carpentier, quello tra pagina 243 e 247, in cui Esteban ha grosse difficoltà a dare un nome a tutti quegli oggetti meravigliosi che gli si presentano nel Nuovo Mondo, gli uccelli sconosciuti, i pesci Leviatano e l'ananas-porcellana, rafforzato da un ulteriore precisazione sull'impossibilità di dare un nome alle cose di Julio Cortàzar, preso da Diario di Andrés Fava, quando scrive
Già da bambino sospettavo che mettere il nome a una cosa significasse appropriarsene. [...] Un giorno iniziavo a sentire che il nome non andava più bene, che non era la cosa menzionata. La cosa era lì, nuova e brillante, ma il nome si era gualcito come un abito. [...]
Credo che tutto questo c'entri con il discorso sul lavoro, quello culturale e quello no, e sul lavorìo, e sull'intervento di Chiara Di Domenico perché a un certo punto è uscito fuori, in quella bella-per-sette-minuti disamina sul precariato, un nome, quello di Giulia Ichino, editor di Mondadori, figlia di Pietro Ichino ex parlamentare PD recentemente passato nella lista Monti il cui demerito, di Giulia, stando alle parole di Chiara, è quello d'esser stata assunta nell'azienda in cui lavora da dodici anni anche e soprattutto per il cognome che porta.
Va da sé che s'è sollevato un vespaio che férmati, di quelli che in Italia siam sempre pronti a sollevare; reazioni incrociate non sono tardate né ad arrivare né a latere.
Bianciardi, ne ILC, a pagina ottantuno, che è poi il mio anno di nascita, e non venitemela a raccontare, sembra strano anche a voi che un classe ottantuno lavori da dodici anni nello stesso posto, scrive
[...] il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c'è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.
Chiara, quando ha dato un nome al problema, un nome femminile, e un cognome, da parlamentare, ha reso possibile che altri se ne potessero appropriare: partiva con l'ambizione di porre un problema, e ha fatto sì che se ne sollevasse un altro.
E l'idea che mi son fatto, poi, io, è che quel nome, subito dopo, non andava già più bene, non era la cosa menzionata, non era un vessillo da sventolare nella denuncia contro il precariato, ma l'autorizzazione a procedere pretestuosa per tutt'un seguito che non fa bene ai termini della discussione, ma la mortifica.
La cosa è lì, vecchia e impolverata, il precariato, e il nome che gli si è cucito addosso sgualcito, come un abito.
Leggo che gli intellettuali di questo paese vanno schierandosi. Io sto con Giulia. Io sto con Chiara.
Sarà che ci piace indossare i nomi, e farceli sgualcire addosso.
Io sto con i precari, e quindi contro il precariato.
Ma poi mi guardano in faccia, lavoreresti là da tredici anni, sei dell'ottantuno, machedavéro, ma che ne puoi sapere tu?
Mi sento un privilegiato.
E certe volte me ne vergogno.
Cert'altre no.
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