14 dicembre 2012

Codardo d'un turiddu


Una volta, avrò avuto otto anni forse, m’ero innamorato d’una ragazzina paciocca, di quelle con le guance pùnfete e le calzamaglie pesanti sotto il grembiule e le trecce annodate con gli elastichini di Poochie, che aveva un anno più di me e insieme facevamo questa recita di fine anno, in cui io ero il cacciatore che la salvava dalle grinfie del lupo in un bosco con gli altri ragazzini che facevano le fragole, e il lupo era il bulletto della scuola, con mire - che te lo dico a fare - sulla ragazzina paciocca. Con le sue mani pelose da cucciolo di lupo riottoso m’aveva preso dietro le quinte e m’aveva detto che se m’azzardavo a darle un bacetto sulla guancia come stava scritto sul copione, m’avrebbe strappato a morsi il mignolo sinistro, giurosuddìo, giura pure te, e io avevo giurato.

Poi era finita che m’ero fatto prendere dal metodo stanislavskij e dopo averla salvata in un tripudio di fragole di bosco giubilanti le avevo allungato sulle labbra morbide le mie, lei aveva riso e il lupo s’era imbizzarrito che ma come sarebbe a dire, me le aveva promesse e mica troppo in là, giusto il pomeriggio dopo; e io per tutta la notte avevo sognato scene western di resa dei conti, di biciclette abbandonate al loro destino di ronzini roventi e nunchako spuntati da chissà dove che m’avrebbero asfaltato la strada della vendetta. Solo che poi me l’ero fatta sotto e c’ero mica andato, alla spianata dei fichi d’india, codardo d’un turiddu, mia madre m’aveva preso al cantuccio e m’era toccato spiegarle perché quelle lacrime, perché le trecce con gli elastichini di Poochie, perché era male che non m’avessero mai regalato quei nunchako.

[un pezzetto]

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