Se c'è una cosa complicatissima tra le più complicatissime è parlare dei bei libèlli della collana ZOO - Scritture Animali di :duepunti edizioni, quella curata da Giorgio Vasta e Dario Valtolini, anche se non credo dipenda da Vasta, né da Valtolini.
C'ho provato una volta, tempo fa, su SeroxCult, che m'ero appena sbriciolato come una roccia-poco-rocciosa dalle parti di Linate, il libellino in questione era Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia, con l'intento di recensirlo ho finito per scrivere duecentocinquanta parole circa sui cazzi miei, e sul fascino delle covèrcie in carta derivata dalla merda d'elefante, che è una tentazione sempre in agguato, alla fine, quando si parla di ZOO-Scritture Animali, quella di focalizzarsi sulle note di colore, mica sul libello, ma com'è che si dice: pazienza.
Lo salmodiava sempre mia nonna, Pachamama protettrice degl'aracnidi del circondario: le ragnatele della cantina erano fortezze inespugnabili, e i loro abitanti come le vacche indù. Intoccabili.
Io mia nonna credevo di renderla felice, fingendo di prestarle ascolto, ma la verità è che i ragni m'hanno mica mai troppo attratto, creature così sfuggevoli, così ritrose, riottose e permalose. Ero più preso dalle saltapicchìadi, quel trionfo di saltapicchi - mezzaspècie di grilli in miniatura - ch'era tutto un riluciare d'ali bluastre nei pomeriggi caliginosi dei paesotti altoviterbesi. Nutrivo, a un tempo, paura e ammirazione per quegl'insettini inafferrabili, atletici, tonici e ribelli. Schifo, schifo mai. Mi mettevo sulle loro tracce e cercavo di catturarli con le mani a vongola, mollusco bivalve furtivo intruso nell'apparato simbologico dei giovincelli campesini, e quando riuscivo nell'intento, ricordo, era tutt'un giubilo. Pari attenzioni, e soddisfazioni, per e da quelle incursioni selvagge, solo con le lucciole.
Se c'è una cosa che più d'ogni altra, oggi, mi sembra incarnare un simbolo altissimo del tempo che scorre, è ricordare lo stupore col quale le proporzioni tra la preda e il predatore, nelle mie cacce giovanili, andavano ridefinendosi. Quando catturare i saltapicchi, o le lucciole, è diventato troppo facile, e scarsamente foriero di soddisfazioni, quando le mie mani sono diventate troppo grandi per custodire il segreto d'uno sgambettìo, dev'esser stato in quel momento che ho realizzato d'essere diventato un ométto.
Gli insetti, un po' come le paure, quando impari a fronteggiarli, o a ignorarli, e a dominarli, non diventano che infime animose rotelle dell'ingranaggio della routine. Si fanno piccolèrrime. Puoi financo fartene beffa.
Tutti i ragni, il libello di Vanni Santoni del quale vorrei finire per parlare, ma anche no, ché son solo sessanta pagine e tergiversarci troppo tutt'attorno non ha neppure troppo senso, alla fine, se c'è un lascito che questo araknoto intitolato Tutti i ragni - una sorta di minibildungsroman artropode - instilla nella mente del lettore, mi pare di poter dire, è proprio questo: crescere è riuscire a trovare il modo di intrufolarsi nell'epicentro dei timori, imparare a conviverci, instaurare un rapporto di reciproco rispetto, e conoscenza, con le radici del rigoglioso albero delle fobie, tassonomizzandole, analizzandone le sfumature, testandone la percezione in te e negli altri. Crescere è riuscire a piantare i piedi nell'occhio del ciclone, cosicché possa creartisi tutt'attorno come un polmone d'acciaio di benevolenza, un bozzolo protettivo, e in fronte agl'occhi, o dietro la nuca, gl'aracnidi che il vento solleva dalla sabbia non siano nulla più che una variopinta parata farsesca.
Crescere è ritrovarsi al centro di una ragnatela, e non averne paura.
Ed è tutto, in buona sostanza.
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