Volendo si potrebbe raccontare la storia di quel tizio che se ne sta a Nuova York ed è talmente invaghito d'una cambogiana, una cambogiana col nome impronunciabile che calpesta i marciapiedi di Phnom Penh e che ha conosciuto a Phnom Penh, talmente invaghito da pensar sempre a lei, pensaci pensaci pensaci pensaci che gli passa pure non dico la voglia, ma l'idea di dover mangiare.
E allora questo nuovaiorchése estemporaneo son le quattro del mattino e controlla sull'internet le poste elettroniche, lei dall'altro capo del mondo non riesce a pigliar sonno, si scrivono delle gran lettere e contano i giorni che li separano ancora.
La prima cosa che farò, gli dice lei, sarà gettarti le braccia al collo, e poi non lascerò più che succeda, che tu te ne vada.
Lui, a nuova York, non si sa cosa ci stia facendo, non è importante. Nella sua camera d'albergo, seduto per terra, sta andando ai pazzi, è stanco, stanco d'aspettare, e poi la scheda telefonica internazionale è appena scaduta.
Tu mi chiami solo quando sei ubriaco, lamenta lei, lo capisco sai dalla voce che hai, e solo quando sei ubriaco ti sbottoni un po', e mi dici che mi ami, e che la prima cosa che farai, quando ci rivedremo, sarà gettarmi le braccia al collo, e far sì che non me ne vada mai, mai.
Poi arriverebbe quel momento in cui lui è a trentamila piedi da terra, vola nel ventre oscuro della notte pacifica, si piglia un sonnifero, e lei va a fargli visita, sì, ma nei sogni, solo in quelli.
Gli si para davanti immersa in una luce blu, fuorescente, galleggia nel limbo dei pensieri. Ha una faccia, lei, la cambogiana, così luminescente che lui deve socchiudere gli occhi, per guardarla bene, per vedere chiaramente che la prima cosa che farà, ma che farà pure lei, sarà buttarsi le braccia al collo, e far sì che né l'uno né l'altro, oh, possano andarsene mai più, oh, andarsene, oh, mai più.
Volendo potremmo raccontarla, questa storia, ma l'han già fatto i Dengue Fever in Tiger Phone qualcosa.
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