Giovanni, si chiama il capitano, Giovanni Vanderdecker. O era Vanderbroncker?
Nessuno lo sa con precisione.
Per questo la ciurma lo chiamava Giò, semplicemente Giò, Giò al mattino quando il mare è di bonaccia, Giò a poppa col libeccio a scompigliargli il ciuffo corvino, Giò quando colpisce la palla di stracci sul ponte della nave da quaranta metri insaccandola nella rete a prua, certe sere freddissime al tramonto, mentre si naviga spediti verso l'isola di Giava.
Sembra che Vanderdecker Giovanni detto Giò, con le Molucche, abbia un conto in sospeso. Molacca è la madre, alle Molucche andava il padre, che di quelle terre amava clima, cibo e fighe; molacca, in un certo qual senso, è pure la figlia della sorella: eggià, è molacca pure quella, che ci si creda o no.
Giò, per raggiungere l'isola di Giava, impiega poco tempo: sessantatré ore, per la precisione. Due giorni e mezzo, più o meno. L'equivalente di sette partite di pallone.
Come se ti piazzi sui seggiolini della Rotterdam Arena e ti sorbisci le ultime sette giornate dell'Eredivisie, Feyenoord-ADO Den Haag, Feyenoord-RKC Walwijk, Ajax-Feyenoord, Feyenoord-PSV, Feyenoord-Twente, Feyenoord-FC Utrecht, Feyenoord-VVV Venlo. Al triplice fischio, Giò è arrivato alle Molucche. Dove l'attende l'oro, e la gloria.
Non che sia mai stato meno che periglioso, il viaggio per arrivare alle Molucche.
Aveva provato, una volta, a passare per l'Atlantico virando verso le Americhe.
Avrebbe dovuto fare scalo tecnico a Buenos Aires e doppiare Capo Horn.
Era il millenovecentosettantotto, e il mozzo Johann, stomaco troppo debole, aveva detto no, guarda, non vengo.
Col cadzo che ce l'avevano fatta, a doppiare Capo Horn.
Giù bestemmie.
Giò era ferratissimo, nelle bestemmie, ne sapeva anche qualcuna in molacco.
Trent'anni dopo, si tratta di doppiare il Capo di Buona Speranza.
Ci sono buone speranze di riuscita.
L'ammiraglio Wesley traccia certe rotte sulle mappe verdi che férmati.
Il capitano di vascello Dirk, brutto come l'invidia, dà le capocciate alle razze che si frappongono sul cammino. E dopo esulta pure.
Lo sembran dire anche i gabbiani: forse è l'anno giusto per issare il gonfalone arancio sulla sommità del mondo.
Ed invece.
Invece capita che al largo di Cape Town, coi brilli iridescenti di Johannesburg a baluginare in lontananza, il cielo cominci a tingersi di rosso.
Le attrezzature di bordo s'inceppano. Un Nettuno dall'insolita glabra mise, arbitro incontestabile di chi va per mare in cerca di gloria, non ti va a sguinzagliare tutta la sua perfidia?
E allora è nervosismo, e bestemmie, giù con le bestemmie di Giò che in confronto ogni sciò di Remo Remotti meriterebbe il palcoscenico della Cappella Sistina.
Un'ora e mezza in balia delle onde.
E non finisce lì.
C'è da patire ancora mezz'ora almeno.
Che te pòssino cecàtte, urla Giò all'Altissimo, vedi tu che ti succede se non ci fai uscire vittoriosi almeno stavolta. Ci farai mica navigare in eterno, porco d'un cane!
Braafheid, fido marinaio ch'a squadrarlo da lontano sembra Candyman, implora perdono segnandosi la croce sul corpo.
Il resto della storia la sapete, non sto qua io a raccontarvela.
Mica son state esaudite, quelle suppliche là.
Insomma, tutto questo amba aradam per dirvi che vi capitasse, che so, tra quattro anni, d'essere in navigazione al largo di Rio de Janeiro piuttosto che non di Salvador de Bahia, e d'incrociare una nave fantasma ch'emana una luce spettrale materializzandosi da un banco di nebbia, credeteci mica a chi vi dice ch'è solo una fata morgana, una semplice illusione ottica, un farfalicchio.
È l'Olandese Volante.
A bordo del quale le anime di Giò, di Frankie De Boer, di Johan Neeskens e di Ruud Krol vagano senza pace, legate da un perfido sortilegio al sempiterno destino di non riuscire a portarsela a casa mai, una dannata Coppa del Mondo.
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