Una delle cose che ho più amato e odiato a un tempo, quanto l’aèsseroma ma con modalità tutt’affatto diverse,
con slanci più gratificanti e meno struggenti, è stato un romanzo, Il Profumo di Suskind, norreno
puranco lui. Ne ho odiato l’edizione tremenda, impiastricciata d’inchiostro e rilegata a fascicoli che ti si
scioglievano tra le mani come il cuore di fronte a un bambino che piange di
nostalgia, gelato sull’asfalto d’estate, gusto
Fabrizio. Ma l’ho anche amato come si ama a quindici
anni, con lacrime e violoncelli e squarci di sinapsi e di ventricoli. Quegli
stessi zenit emozionali c’è da provarli per Jònsi mentre singulta Vaka, zampillare lavico di
gorgheggi e falsetti che se ti posano sulle spalle ti nasce dentro la voglia di
limone ma mica così per dire, di limone forte, di quello
del tipo Baciamoci In Bocca Ora Senza Se E Senza Ma. L’amico rioplatense
mi fa un cenno, guarda i vicini di posto, guarda le loro lingue come si
contorcono su scenografia di boschi
candele ed eruzioni di vulcano, non credi anche tu non ci sia niente di più bello dell’amore, dell’amore quando non si disperde in rivoli, quando non
s’interrompe brusco? - ma per le lingue è già tempo di sgrovigliarsi, amò questa famma’a sentì però, per l’abbraccio di slegarsi con uno schiocco come di
temporale improvviso, tuono che squarcia le nubi sulla sincope tambùrica dell’attacco di Isjaki,
prodromica di chissà quale deflagrazione di conflitto,
dichiarazione bellica, sirena che anticipa i bombardamenti, inizio della fine,
che peccato questo crollo d’intimità, però, che peccato quando l’essenza dell’amore si dissolve,
scemando nell’acredine del sudore.
Ci sarebbe da parlarne con qualcuno,
quanto suoni bene Jònsi-Baptiste
Grenouille.
[jònsichi?]
Sgomento è una parola-albero
dalle radici infette, essiccate, affondate nella terra brulla del timore, della
paura, staglia la sua sagoma minacciosa su cieli pregni di tenebrosa nuvolosità. Indelicata è l’etimologia, indelicata e ingenerosa, perché dovremmo poterla appiccicare sul carico sporgente
d’un’espressione - la
parola sgomento - anche meno arcigna, meno incattivita, come quella dipinta sul
volto del mio amico del Sud del Mondo se gli chiedo di farmi luce, che c’è da scrivere, qui, c’è da puntellare i
lembi della tenda con la quale sto campeggiando nei pascoli fertili della
serendipità. Com’è che si chiama
questa? Olsen Olsen. Come le Olsen Twins, matupènsa. Che vallata
fertile, quella di Serendipità.
Una volta, cercando vai a sapere cosa
sulla internez, mi sono imbattuto in una foto delle Gemelle Olsen immortalate,
con quella loro espressione tutta Dreams Are My Reality, a un party molto
sbarazzino; sulle spalle nude portavano un paio di ali da angelo a Olsen, e
negli occhi la testimonianza d’appartenere a tutt’altra genia rispetto a quella cherubina. Lembi di
nastro isolante nascondevano i capezzoli al centro dei seni sodi, e come m’erano risuonate forte nei timpani le trombe del
paradiso, a vedere quella foto, in memoria della quale non avrei mai smesso di
cercare, in ogni donna che ho incontrato, quegli stessi sguardi Piffero Magico,
inconsapevoli e letali.
In chiusura di Olsen Olsen ci sono voci
sussurrate, di folla che non capisce, che non può né forse vuole capire: sono le voci del popolo
medievale di fronte all’inaugurazione della nuova cattedrale,
assiepati nella navata centrale, intimoriti dai suoni cupi che rimbombano nel
catino absidale, dalla predica sacerdotale alla quale altro non sanno opporre
se non quella naiveté di chi vive incurante della divinità librata a diecimila spanne sopra la propria testa,
incapace di - e in quanto
riconosciutamente tale, disinteressata a - capire, e che purtuttavia vuole
esserci, vuole vedere, vuole compartecipare. La stessa ragion d’essere delle Gemelle Olsen a un party
hollywoodiano.
Se fermamo qua o annamo avanti?,
qualcuno c’urlicchia dietro tutto scodinzolante.
[quello sguardo delle OT era sempre ad Halloween, ma di qualche anno dopo]
Hrafntinna e Popplagid hanno il suono
che deve avere, semmai avesse un suono, un angolo concavo. Varùd, invece, e Kveikur, stridono come striderebbe,
producesse un rumore scivolando ad incastro, un angolo convesso. Da questo
punto del concerto, e di lì fino alla fine, pensamenti mistici mi
portano ad avvertirmi tutt’uno con - e tutt’altro rispetto a - l’Amico
Sudamericano, la moltitudine degli spettatori di Capannelle, la vastità dell’umanità tutta, nell’accogliente grembo
della quale mi sento enormissimamente piccino picciò.
L’acustica è pessima, i suoni si confondono al brusio,
lasciatemi sentire, voglio una
placenta nella quale introgolarmi, la voglio adessissimo, voglio assommarmi ai
battiti dell’evoluzione, smirciare i riverberi, i
riverberi e nient’altro, non voglio vedere, voglio
intuire; serro gli occhi, e mentre monta il refrain familiare di Hoppipolla
dilato le narici, lasciandomi invadere dagl’effluvi di fango
umido e paglia bagnata, molte scintille, molto geyser, la scimmia al circo che
mi abbraccia col suo braccio peloso e mi porta alla bocca la cannuccia di un
succo di frutta in una foto di bambino, e poi il profumo di mia madre quando
veniva a prendermi la domenica mattina dopo una notte trascorsa da solo, in una
camera odorosa di borotalco nella casa umida di mia nonna; Hoppipolla e
soggiungono sentori di capodanno di stelle filanti, schiene abbronzate a fine
estate sotto le agavi, Chiara mia moglie sorridente con l’abito da sposa subito dopo aver tagliato la torta
di nozze che tutt’intorno è iridescente
sfavillio di zolfo e lacrime, Hoppipolla mio padre quando gli occhi gli cantano
ch’è ancora tutto possibile nella penultima
giornata del campionato di calcio 2009-2010, Hoppipolla Lapo Cronopio il cane
mio se mi si acciambella sulle gambe davanti a un film di Lars Von Trier,
Hoppipolla come il verso d’un Dio sordomuto, Hoppipolla e tutti i
dubbi, le reticenze, i pregiudizi mi crollano ai piedi con un rumore di cocci
infranti. Un miracolo di commozione e intimità deflorata e
rigenerata immantinente: ci pensavi - lo sapevi? - potesse essere questo, la musica dei Sigurrò?
Hoppipolla sai cos’è? Il suono che fa una bolla di sapone, concepita in
un privatissimo bacio di labbra al bastoncino, quando esplode in cento rivoli
di ecumenico divertimento bambino sui fili d’erba del prato
giardino.
Qualche giorno dopo il concerto, Fabio
Viola ha scritto che quando la galassia
di Andromeda si scontrerà con la Via
Lattea, nell’universo risuonerà questo pezzo per
alcuni miliardi di anni, come accompagnamento musicale dell’evento.
Il pezzo era Brenninstein.
A me è venuto da pensare
che, piuttosto, quando la Via Lattea e la galassia d’Andromeda udiranno quel pezzo risuonare inizieranno
a limonare forte, e de repente nojaltri comuni mortali dimenticheremo cosa
siano mai stati gli scontri, gli scontrini, la scontrosità.
Mi chiedevo, a spettacolo appena
finito, se siamo davvero pronti, per tutta questa poesia, per tutto questo
bene, per tutta questa perfezione imperfettibile.
Poi un volo Ryanair diretto a Ciampino,
in arrivo vai a capire da dove, di certo non da Reykijavik, forse da Marrakech,
ha tagliato trasversalmente l’orsa maggiore, affacciata sopra il
palco ormai buio, insolitamente brillante, portandosi via con sé tutta la magia.
[fine. Ah, il mio amico argentino si chiama Maximiliano Chimuris]
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