[ph. Maximiliano Chimuris]
A volersi sperticare nel futile quanto
sbarazzino compito di dimostrare come il concetto di trombamicizia sia applicabile anche alle parole, bisognerebbe
prendere verginità e Islanda
e perder qualche tempo dietro alle loro evoluzioni.
Pronunciarle in rapida successione è già dare vita a un chunk of language: si chiamano l’un l’altra a sostegno, riecheggianti, fan combutta,
lieti gli sono i calici. I giovani-anzi-giovanissimi islandesi sono i primi in
Europa, chi lo sa nel mondo, a perderla, la verginità, come sarebbe a dire che non l’avevi mai sentito dire: quindici anni e mezzo, all’incirca, e non è tanto questione
di non sapere come perdere il tempo: è più lungimiranza nel saper come impiegarlo. Noialtri,
invece, ce ne rimaniamo ancorati a certe tradizioni come la castità, l’intempestività e il pregiudizio: quelli son vizi che lasciarseli
alle spalle, mica facile (come la verginità, d’altronde: gli italiani sono gli ultimi in Europa, molti
già maggiorenni, a vedersela sbriciolare
via).
Io, di par mio: io son dovuto arrivare
alla veneranda età di trentadue anni per scrollarmi di
dosso, in un colpo solo, ritrosia e verginità nei confronti
dell’Islanda. Ad essere più preciso, della loro incarnazione - a detta di
molti, magari non di tutti - musicale: i Sigur Ròs.
Al concerto dei Sigurrò, come d’ora in poi li
chiamerò, sono andato in una torrida e brumosa
serata di fine luglio. In compagnia di un argentino, vieppiù. Che sembra quasi una barzèlla: che ci fanno un argentino, un italiano e
cinque islandesi a boccheggiare nell’afa romana?
[peggio solo l'India, tipo]
C’è questo proverbio
portègno che dice: a mate amargo, boca
dulce. Un po’ il corrispettivo del nostro a buon
viso cattivo gioco. Quando i Sigurrò hanno annunciato
le tappe del loro tour europeo, che prevedevano anche un’apparizione al Rock In Roma, mancavano solo pochi
giorni al genetliaco del mio amico latinoamericano. Ho pensato che sarebbe
stata una mossa brillante, regalargli un biglietto. Dopotutto, a queste
latitudini, è più semplice trovare
biglietti che yerba mate.
Qualche settimana dopo ero impegnato
con sua moglie in una sessione di traduzione: in una pausa d’alfajores, mentr’eravamo
sovrappensiero, come con un soffio di quelli che sparigliano lo zucchero a velo
sul tavolo m’ha detto a proposito di quel fatto del concerto dei Sigur Ròs, no?, ecco: ovviamente lo accompagnerai tu. Non avevo mai sentito usare in maniera così definitiva e imperfettibile la parola ovviamente. Ed è stato un po’ come provare
quello spavento che s’avverte sull’orlo del precipizio prima di buttarsi nel vuoto con
le caviglie legate a un filaccione elastico, o davanti a un sorriso timido di
ragazza che lenta si sfila le mutandine, o quando ti trovi a rimirarti un
foglio bianco tra le mani: la paura connaturata in quegli assalti alla
bajonetta alla verginità. Un tutt’uno d’esplosione vulcanica, vampata di zolfo, all-in di
luoghi comuni sull’Islanda.
E sia, mi son parlottato dentro. E sia, poi, trascinando all’azimut ogni tentativo di resistenza. A boca amarga,
mate dulce, dopotutto. Davanti avevo un tramonto crepuscolare e vaporoso come
quelli sulla Blue Lagoon di Reykijavik.
Lo zucchero, nel
mate, ce lo vuoi?, m’ha chiesto sua moglie, come non fosse successo
nulla.
Se siete mai stati a un concerto in
Argentina, sapete di cosa stiamo parlando. Se non ci siete mai stati dovete
fidarvi, come me d’altronde, di quel che racconta il
nostro amico del Sud America. Che dice cavalli, cavalli in ogniddove. E sopra
ai cavalli: gendarmi. Di quelli coi baffi e cattivi, come in Pinocchio. Che ti
scortano. Ti scrutano. E se per caso provi a chiedere una birra: pùnfete. Perché birre, continua l’amico portègno, birre mica ne
vendono, dentro agli stadi in cui si svolgono i concerti. E allora devi portarti
la sbronza da casa. E al concerto, poi, catapultarti mica al trotto: al
galoppo. Ma che vuoi farci: a caballo regalado no le mires el dentado, dice.
All’ippodromo di
Capannelle i cavalli corrono sempre meno. Nondimeno, la struttura
mezzofatisciente, la pista di pozzolana grezza, le balaustre pittate di bianco,
ogni oggetto evoca suggestioni da
mandrakata impecionata e pecoreccia. All’ippodromo di
Capannelle c’è stato un periodo in cui - come
transizione verso l’imborghesimento dell’happening, o a voler ribaltare il punto di vista
picchiata verso la nazionalpopolarizzazione - dalle febbre pei cavalli s’è passati a quella per la Fiesta! latina - intesa come
americana, va da sé: alette di pollo fritte, chimichurri e
picàgna a imperlare l’aria d’effluvi che evaporavano
per ricadere sulle pelli madide di sudore di tangueri, bailarini di salsa e
samba e capoeira.
Da un paio d’anni, all’ippodromo di
Capannelle, invece, si svolge Rock In Roma.
Il 28 Luglio erano in cartellone i
Sigurrò ed è a quel concerto
che siamo andati, io e il mio amico sudamericano.
Nessun commento:
Posta un commento