"Sono entrato. In una sala buia c'erano tre sedie. Al centro c'era lui, immenso, con i suoi occhi chiari; a destra, sua madre; a sinistra, la sua compagna. Avevo come l'impressione di essere davanti a un ritratto naif del douanier Rousseau. Nella sua casa c'erano molti quadri astratti. In quel tempo era alle prese con la lettura di autori di quella letteratura detta marginale: Artaud, Bataille, Schwob. C'è stato un cambiamento enorme, in lui, dal viaggio che ha fatto a Cuba. Prima, avevo come l'impressione che fosse un francese pressoché fatto e perfetto. Nel 1958, quando c'è stato il rischio di un colpo di stato, temeva che i carrarmati avrebbero distrutto la sua Parigi. A Cuba, è stato là che ha scoperto l'America Latina. Dopo Persona non grata, non ci siamo mai più parlati".
Jorge Edwards, oggi, ottuagenario molto arzillo invero, è l'Ambasciatore del Cile a Parigi, ruolo che fu puranco di Neruda, per dire. Il suo libro più riuscito, forse, e anche più scomodo, c'è da dire, che gli è valso molte antipatie, ecco, è Persona non grata, un tomone di quattrocentoeppàssa pagine che sorprendentemente non è mai stato tradotto in italiano, e nel quale racconta la sua breve esperienza d'ambasciatore a Cuba, una mezzaspècie di Stendhal a L'Avana, come ebbe a dire Max Gallo, sotto la presidenza cilena di Allende, al termine della quale, chettelodicoaffàre, è stato dichiarato, appunto, persona non grata.
Jorge Edwards, sabato e domenica scorsa, si è raccontato in un lungo e appassionante articolo su Libération, nel quale - tra le tante cose - c'è questo ricordo di come, per intercessione di Mario Vargas Llosa, allora imberbe scrittore che "non aveva ancora pubblicato niente, era molto sinistrorso e già così fanatico di Flaubert", Edwards ha conosciuto Julio Cortázar.
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