Parola lama tagliente, labbra a ogiva e denti ben-in-vista, sgabuzzino m'ha sempre fatto arricciare il naso di dolore, di disappunto, di claustrofobica nausea. Parente della giocosità bounce del bugigattolo, ch'è tutt'un angusto aggomitolarsi felino, e della liquida scioglievolezza del ripostiglio, sgabuzzino ha però di suo un ché di marinaro, di salino, d'oceanico.
Cugino lontano del marsigliese cambuse, fratello a sua volta dell'olandese kambuis, è un po' kamb - cabina - e un po' huis - casa. Nei battelli battenti bandiera oranje, nei bragantini di Sua Maestà La Regina Vittoria così come nei pescherecci che scandagliano a strascico le coste tirreniche, lo sgabuzzino, cambusa vittima dell'addolcimento sonoro dell'occlusiva velare sorda, è la cucina di bordo, il tugurio in cui ristagnano brodetti e cipolle e teste di spigola mozzate.
Niente a che vedere con la perigliosità sotterranea dell'ispagnuolo tabuco, figlio covato nelle viscere della terra, che scivola a noi dall'arabo ṭābiq, "sotterraneo": il tabuco, tuffo tra 'l terriccio negro, è anfratto comodo, invitante, involucro protettivo.
Mentre nello sgabuzzino, beh, c'è da rinchiudersi armati di scorte e pazienza, che c'è mare, e si ballerà un po'.
Ogni volta che la sento pronunciare, la parola sgabuzzino, ogni volta che c'entro, dentro lo sgabuzzino, sento i piedi tremare di già, lo stomaco contorcersi, i gabbiani, in lontananza, coi loro becchi a ogiva, farsi beffe delle mie smorfie.
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