E poi arriva sempre il momento dei giàggià, degli e-co-sì a mezzabòcca, sospesi, penzolanti dalle dita secche d'un pèsco; gl'imbarazzi abbronzati, con le vacanze alle spalle trovarti meglio, davvero, più sistemato, ecco.
Non starò a chiederti se sei felice: ché si vede lontano una lega quanto sei felice, giaggià, e-co-sì, stretto in nuovi abbracci – non presentarmela guarda, non c'è bisogno, ci conosciamo già – tutto calato in quei princìpi rosei d'amori sussurrati all'orecchio rubescente, a guance accaldate, quand'è tutto uno sciùsciù di promesse eterne – eppure tra tante, proprio lei – di slanci passionevoli, di una come te l'avevo trovata mica mai.
Tradire non è tradire per davvero, quando manca la comunione, o quando finisce, perché poi stai sicuro che finisce – ineluttabilmente, come la primavera i concerti o la stagione delle pere cocomerine. C'è stato un tempo – certo – in cui siamo stati noi, ma è stato prima che ci parcellizzassimo in quattordicimila io, come i vetri infrangibili sui quali una sassata: tutto ha inizio con una fesatura evidente, eppure le schegge rimangono aggrumate: guidare si guida male, com'è che possiamo arrivare se non si vede un cazzo?, attenzione che c'è un cipresso, Ledesma, la curva, la luna, Vidic, l'aria di fieno freddo dai finestrini.
Siamo avanzati a tastoni, finché abbiamo potuto, nel buio, senza conoscerci, senza saperci nemici o fratelli o la passione d'un autunno. Ci siamo baciati, e poi presi a pugni, mentre suonavano le trombe, le voci, e ballate di testaccina balcanincità, con le fisarmoniche a sfiatare su Piazza Vittorio.
Non lo so quand'è che siamo rimasti irriducibilmente soli, quando l'incrinatura poi s'è fatta insanabile, estesa, ammorbante: quando sulle strade ciottolose si sono allungate le ombre, o s'è abbattuta la tempesta, e ognuno s'è scelto il cammino suo, che dio c'abbia in gloria.
Non lo scordo, non lo scordo il principesco tuo incedere, incidere, franare a terra con il boato che è una voragine, le lacrime di borghetti nel cameratismo di sette ore insieme senza accendino e con un solo pacchetto di sigarette; non lo scordo l'occhio lucido, la barba lunga, i fischi, i triplici fischi, le corse in mutande e gli errori macroscopici, non le scordo le bestemmie e i vattenaffanculo, le ripicche e i deliri dell'incontenibilità d'una notte madrilena.
Poi arriva sempre il momento dei giàggià, degli e-co-sì a mezzabòcca ciondolanti dalle dita secche d'un pèsco; un po' che non ci si vede e gl'imbarazzi abbronzati, con le vacanze alle spalle trovarti meglio, davvero, più sistemato, ecco, com'è che funziona in questi casi? Ci si augura buona fortuna? Ci si dice arrivederci?
Mirko, trionfo di suoni taglienti, di cediglie, di barba e di capricci: buona fortuna proprio no, non ce la faccio.
Preferisco l'astio di chi s'è voluto troppo bene, il risentimento immotivato – gelosia? – di chi non perdona perché alla fine cosa c'è da perdonare, ognuno sceglie la strada sua, e che dio c'abbia in gloria.
Proprio così, funziona in questi casi.
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