01 aprile 2011

Pachamamalumaca vive e lotta con me

Nell’immaginario di me fanciullino, nònneta era una Pachamama dalle fattezze di Lumaca.

Un pomeriggio, nei sogni turbati d’un sonno imposto all’asilo – quando le suore ci obbligavano a trascorrere ore intere con la testa poggiata sul tavolo e la schiena a rischio scoliòsi, serrando le imposte ed intimando con cipiglio conventuale zitti tutti preghierina e si dorme – m’era addirittura sopraggiunta così, un grosso guscio sulla schiena e la faccia bonaria penzolante dal collo rugoso, un rivolo di bava a colarle sul mento peloso.

Con nònneta passavo certe lunghe, interminabili domeniche d’autunno a stender la lasagna col sottofondo dindondante di campane, e poi ce n’andavamo a salutare i morti, al cimitero, con la gioiosità che solo certe nònnete paesane sanno avere. 
S’è c’è stato un grande insegnamento, un imperituro lascito che nònneta ha voluto donarmi, è stato che il carducciano “sei nella terra fredda sei nella terra negra né il sol più ti rallegra”, a pensarci bene, è una gran cazzata.
PachamamaLumaca non vedeva l’ora di farsi umido humus, me lo confessava senza troppe remore ogni qualvolta ne aveva occasione, anche se avevo chenesò? dieci anni ed il senso della vita e della morte l’avevo mica afferrato troppo bene. E poi al camposanto c’è sempre l’erbetta fresca ed un sole sprezzante ad accarezzare le cime dei cipressi, dopotutto, non ti pare?, mi chiedeva.

Le piaceva, ci piaceva il muschiato aroma del cimitero. Sapeva di sottobosco dopo un’acquazzone.
Salutavamo i morti e raccoglievamo le chiocciole. Centinaia e centinaia, le domeniche d’ottobre, subito dopo la lasagna e subito prima del cimitero.
Le ammassavamo dentro certe calze demodé settecento denari, opalescenti ed impenetrabili, e le maglie si facevano rilucenti quando da ogni lumaca fuoriusciva saliva filamentosa.
Le cucinava in umido, cascata di pomodoro ed aglio, dentro una casseruola rossofuoco, ore di borbottii ed effluvi sulla stufa in ghisa. Uscivo pazzo per quelle lumache. Stringevo il guscio tra pollice e medio, col polpastrello dell’indice ne tamburellavo il dorso prima d’avvicinare le labbra all’uscio e suggere la carne tenera, le antenne retratte, l’essenza tutta d’un’ottobrina bucolicità.

PachamamaLumaca ha abbadonato il suo guscio terrestre in una domenica umida di venti autunni dopo quelle miracolose raccolte di chiocciole.
Io, che vado sempre di corsa perché ho mica tempo da perdere, io, m’ero di molto allontanato dai suoi ritmi paciosi, dalla sua rubizza convivialità, dal suo sempiterno stender lasagne salutare i morti cucinare le lumache.
Nella casupola paesana ho trovato la casseruola rossa. 
L’aveva lasciata per me, custodita dentro la madia, avvolta in un panno coi quattro lembi annodati sul coperchio. 
Come quando cucinava le lumache e me le faceva recapitare. Stronzo io che non alzavo mai neppure il telefono per ringraziarla.

L’hanno inabissata nella spianata, il cuore, il fulcro del cimitero vecchio. A fianco del marito. Il nònneto che non ho avuto e che con la sua prematura dipartita l’aveva costretta a riempire le domeniche con le lasagne, le visite ripetute, la ricerca spasmodica di gusci striati.
Che poi, quando si è nella terra fredda e nella terra negra, a non potersi più rallegrare son quelli sei piedi sopra, mica quelli sei piedi sotto. Loro se ne stan meglio, dicono, mentre nioaltri rimaniamo vittime dei ricordi sprigionati da una casseruola rossa, da un camino acceso, da un roboante assolo di campane, dal profumo della terra umida quando viene smossa, setacciata, calpestata.
Questo m’è venuto da pensare. Mi ci son pure soffermato un bel pezzo, su quel pensamento, io, che generalmente vado di corsa, sempre, che non ho mica tempo da perdere, io, che son mica una lumaca.

[è uscito qualche tempo fa su Laspro]


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