Più che un romanzo, cosa che pure indubbiamente è, questo libro è un rap, una mescolanza di espressioni gergali, di citazioni, di stati d'animo da liceali di periferia che sembra abbiano letto tutti i libri e ascoltato tutte le musiche, anche se le hanno solo assorbite dall'aria che tira. E' una storia-non storia di amicizie, tradimenti, avventure, canne, alcol, cazzate, ragazze, masturbazioni e primi amori, fughe e ritorni tra Roma, Parigi e i paesi della provincia, i non luoghi fuori città. Scritto in un linguaggio personale / collettivo da iniziati, che certe volte si capisce ed altre si intuisce, perché cifrato, volutamente sballato anche se segretamente costruito con una sapienza da scrittore navigato. E' un libro zanardesco, elitario, sprezzante, ma non superbo, semmai interrogativo, aperto, dubbioso, metaforico, palindromo. Come la frase che gli dà il tempo, ovvero "parlo col rap", che letta al contrario è sempre uguale a se stessa: "Parlo col rap". Insomma una lettura illuminante su un giacimento di forme linguistiche nate dalla necessità di esprimersi diversamente rispetto alla merdosissima comunicazione dominante. Un libro capace di traversare anche la pubblicità e le paroline delle canzoni pop, come un collage di manifesti strappati alla maniera di Mimmo Rotella. Da leggere come una finestra preziosa per guardare e comprendere l'apparente vuoto dei ragazzi "senza politica" dell'ultimo decennio, che si scopre con felice sorpresa essere invece pieno, anzi pienissimo di umori e intelligenza.
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niente: oggi a milano parliamo di linguaggi (anche quello del katacrascio) ed io credo che userò tutti gli spunti di Sparagna, ecco.
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