10 agosto 2010

Quadernini (piumati) di traduzione: La civetta sul barzolo dice crooce crooce

Me ne cantava sempre una, mia nonna, di filastrocca, la trovava divertente ed io non la capivo, non la capisco neppure ora, nonsènsica com'è, diceva la civetta sur barzolo fa' l'amore cor pizzicarolo er pizzicarolo je dà 'n bacio, la civetta puzza de cacio.
Il barzolo è il davanzale, di granito, che scolpisci col mazzolo, un martellone da carpentiere, da gente sudata e muscolosa.
Il pizzicarolo è il pizzicagnolo, da Trastevere in qua, il formaggiaio, come lo chiamate?, genìa sudata muscolosa e col caglio al posto del sangue, nelle vene, i pizzicagnoli, che non trovano niente di meglio da fare che baciare civette, che poi me lo son sempre chiesto, non ti fa schifo slinguazzarti il becco d'un rapace inquietante e col muso pure un bel po' da cadzo?

Mia nonna a far la formaggiaia ce la vedo mica, ma neppure la civettuola quando mi si fa incontro vanitosamente sfacciata, uccellandomi con un vezzoso lo sai che c'avemo una ciuìtta in balcone?, leziosa e sdolcinata come se ne succhiasse ogni piuma di zucchero candito.

Io la ciuìtta non lo so se porta bene o porta male, non me lo sono mai chiesto.
Sembra che il cugino, il gufo, con tutto ch'è saggio e non è un allocco (infatti: è un gufo), ecco, quando passa il gufo allora sì che devi grattarti le palle.
Gl'ispagnoli dicono che il bubolìo fuuu fuuu del gufo in realtà è un ben più arzigogolato cruuuz, cruuuz, e che quei quattro versi in croce il pennuto con la faccia da cadzo almeno quanto quella della cugina civetta ce li metta da quando gesuccristo gl'è morto (in croce) sotto il becco.
E lui non c'ha potuto proprio fare niente, goffo e balordo com'era, un vero allocco, anche s'era un gufo, ed allora niente, da quel giorno rifugge la luce [a-lux, come l'allocco].
Anzi, meglio, dal giorno dopo.
Perché il gufo quella scena là l'ha mica troppo tollerata. Una nottataccia, ha passato. A bere latte, per dimenticare.
Una noche s'è brutta è nochuza, col leche lechuza, ed infatti come si dice ciuìtta? Lechuza. Matupènsa.

La ciuìtta, se mia nonna fosse chenesò tipo di Manchester, la chiamerebbe gufo delle tane, oppure gufo delle marmotte, ch'è un nome affascinante e forse dipende dal fatto che a quest'ammasso di penne con due occhi gialli com'è giallo il cuore delle fiamme s'incunea nei pertugi della nuda terra, tutte le notti, e non c'è sorcio o parente stretto che riesca a sfuggirle, alla ciuitta: un'occhiata melliflua, due sbattiti d'ala invitanti, il topo (che certe volte, pur rimanendo topo, riesce a recitarlo bene, il ruolo dell'allocco) si fa sotto tutto consapevole del suo fascino e tràchéte: un sorcio in meno al mondo, ed una ciuìtta più grassa a svolazzare pigra nel buio.

A me, la civetta, diciamocela tutta, ha sempre incusso un fracco di timore, quasi quanto la parola incusso o l'immagine di mia nonna grinzosa che fa la civettuola sullo struscio al lungomare.
E con quelle due torce là puntàtemi sulla fronte, non riesco neppure a spiegarlo troppo bene.

Il criceto della gabbia di sopra, beata l'ingenuità che impera nel mondo dei criceti, si sporge curioso del nuovo inquilino.

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