[staròba l'ho letta con Massimiliano Ercolani al contrabbasso e Simonerò alla chitarra, loro incalzavano un riff rockabilly ed io la leggevo veloce con uno jipijapa incastrato sui capelli, era maggio e c'era pure una signorina che suonava l'ocarina, per dire]
Vorrete non credermi, come al cinematografo, le cose sono così come vengono e vanno accettate: la grossa differenza tra me ed Adelmo Schelotto risiede nel fatto che io i discorsi non li so proprio fare, pur arrogandomene fregio e sollazzo, e per impressionare copincollo gl'incipit di Julio Cortàzar. Mentre Adelmo, ah Adelmo, ecco lui non aveva mica mai affermato d'essere un grande oratore, eppure quella fredda sera di Dicembre davanti al resto della squadra, a lavorazione del sommergibile ultimata, aveva strappato applausi entusiasti con poche parole affastellate scompostamente.
Qualche giorno dopo da Terni avrebbero spostato il siluro argenteo fino a Civitavecchia, e sotto il cielo della Befana l'avrebbero varato, poi, bottammuro e tricchetracche e sciampagne che s'infrangono sullo scafo, "al varo lo Sciré", avrebbero titolato i giornali, Sciré come l'area tigrina dell'appendice d'impero fassista in terra africana.
L'avrei mica mai conosciuta, la storia dello Sciré e di Adelmo Schelotto, se non mi fossi imbattuto qualche tempo fa in una stradina che si dipana da Via Braccianese Claudia, una stradina che chissàperché chissàpercome l'han chiamata "Via degli Sciré".
Ma non vien meglio scrollare le spalle, arricciare le labbra, dire boh machenesò machemmefrega quando vediamo il nome d'una strada e non sappiamo proprio cosa significhi, quel nome, appioppato a quella strada?
Così avessi agito, ora colca che saprei vita morte et miracoli di Adelmo Schelotto, fassista della prima ora mica per gioco, viril manufattore prima, repubblichino poi, fuggitivo in ultimo, Adelmo dalle spalle larghe ed una moglie che si chiamava Gina ed aveva sempre certe micragne che férmati, lo stesso Adelmo costretto a fuggirsene in Argentina dopo la guèra per ricominciare tutto da capo, senza scontare, tagliando netto con il passato.
Che col passato e le micragne non si finisce mai di patire: e pure col cognome nuovo, "Noval", ti divincoli mica dal destino: Gina Noval. Uno scherzo, sembra.
Così come uno scherzo può apparire nominare una via pseudocollinare, lontana dal mare, poi, Via degli Sciré, una strada col nome d'un mezzo di locomozione, mai vista toponimia più stramba, vi siete mai dati appuntamento a Largo Panzer, voi?, a Viale Calessino, voi?, a Piazza Vespino Special?
Per Via degli Scirè passo spesso per venire al Panamà Café.
Che poi mica dico mai così, io, Panamà Café.
Pànama, semplicemente, cert'altre volte faccio 'l figo e allora è Panàma, ma Panamà, che poi è l'esatta dizione, mai.
E' che non mi piaccion le parole tronche. Le parole tronche sono er-ro-ri.
Refusi.
Mezzeparò.
Ma c'a d'è?
Ma.
C'a.
D'è.
Ma non vien meglio scrollare le spalle, arricciare le labbra, dire boh machenesò machemmefrega quando vediamo il nome d'un locale rubato da un cappello che a sua volta si chiama come uno stato?
Io la so tutta, la storia del Panamà, mi son pure comprato il libro d'una francese e d'un marocchino che ne raccontano le vicessitudini, "Panamà: A legendary hat", si chiama quel libro, ed ho scoperto che i Panamà li fanno mica a Panamà lo stato, ch'è trò pure lù e no se chià Pànama.
Ennò.
Li fanno in Ecuador, e più in particolare - per la maggior parte - in una città dal nome buffo, Jipijapa.
Ve ne racconto una strana pure su Jipijapa. Sembra che i suoi abitanti, come si chiameranno i suoi abitanti, jipijapegnos?, boh machenesò machemmefrega, insomma siano bravissimi ad intessere trame con un arbusto dal corpo snello e flessibile, una pianta sinuosa dal nome mellifluo, Carludovica.
Tanto caratteristica di quell'area è Carludovica ch'han preso a chiamarla Jipijapa.
Ora, tutte le città hanno una pianta. Ma oh, non s'era mai vista una pianta che si chiamasse come una città.
Prima dell'inaugurazione del Canale di Panamà, leggevo sempre su quel libro, prima che Teodoro Roosvelt andasse a fare il fighetto indossandone uno in un sopralluogo ai lavori, tipo negli anni '20, nessuno chiamava il cappello Panamà: era per tutti lo jipijapa.
Ed io me ne ero accorto, di questa cosa, mentre traducevo Ecue-Yamba-O di Alejo Carpentier, dove tutti i negri dello zuccherificio indossavano mica un Panamà, no, incastrato sul capoccione avevano cosa?: uno jipijapa (uno jipi, per la precisione).
Sembra che anche Adelmo e Gina, quando scendevano a passeggiare per Parque Central o se ne andavano quatti quatti per le viuzze de La Boca, oppure giù al quartiere portegno a veder approdare i bastimenti inglesi, sfoggiassero proprio quel tipo di cappello.
Ma loro se ne fregavano delle elucubrazioni mentali che invece incastrano le cervella dello scellerato che state sentendo leggere. Per loro era semplicemente: un cappello.
Ora, se vi sto ammorbando con questa storia del Panamà al Pànama ch'è il nome d'un locale rubato ad un cappello e per giunta pure pronunciato male, a Civitavecchia in cui non la troverete mai una pianta di Carludovica, e piantalaaaaa!, ecco, è perché io no, non la pianto di far finta di saper fare i discorsi, ed allora finisco sempre a parlare delle stesse cose, della mia curiosità, delle lettere, delle virgole, vedete, ròbe che non c'entrano nulla, riempitivi del tempo che scorre, senza contenuto.
Boh, machenesò, machemmefrega, ma non potrei parlare di calcio?, e di figa?, ed infatti spesso lo faccio, anche ora potrei raccontarvi storie di calcio, argentino, come quando Adelmo divenne hincha sfegatato del Ferrocarill Oeste ed assiduo frequentatore dello stadio del caballito; oppure di figa, argentina, mica di Belen, ma volete mettere il fascino stucchevole e scontato d'una Belen con le buste lilla ed i cambi di tinta, ed i tradimenti, e gl'invaghimenti di voce d'una Luciana cortazariana?
Che sembrerebbe, poi, questa dannata perversione per le amenità, per i trivia, per la sfumatura recondita, per il bislacco scivoloso sapore delle lettere avesse attanagliato pure Adelmo Schelotto, una volta in Argentina, Adelmo che cercava di recidere un passato scomodo scrivendo in una lettera indirizzata alla moglie, spedita dal Gran Chaco, "Io senza te conto meno d'una virgola in un discorso che di virgole non abbisogna".
E sì che a Gina, Gina Noval, le micragne erano passate mica, anzi s'acuivano, e non sarebbe venuto meglio scrollare le spalle, arricciare le labbra, dire boh machenesò machemmifrega e discutere piuttosto di nipoti, di soldi, di tornarsene a casa, una volta tanto, finalmente, defassistizzati?
Ennò.
Perché Adelmo, lui che sapeva essere un oratore efficace, per quanto ermetico, non era poi troppo diverso da me, che invece i discorsi non li so proprio fare, pur arrogandomene fregio e sollazzo, e per impressionare copincollo gl'incipit di Julio Cortàzar.
Dite che tutta questa storia del sommergibile Sciré, di Adelmo e mugliera alle prese col mal di testa, raccontata in un locale che si ostinano a chiamare (male) come uno Stato che presta a sua volta il nome ad un cappello fatto da tutt'altra parte dell'america del sud, dite che tutto questo Amba Aradam (lo sapete, poi, perché si dice ambaradam, nome valigia, dandogli il significato di "messe", "casino"), insomma, vi sembra che tutto questo sia poco credibile?
Liberi di non crederci, come al cinematografo, le cose sono così come vengono e così vanno accettate.
Per quanto ne so io, alla fine della fiera, può pure starci che Gina Noval in Argentina ci sia mica mai stata; e che via degli Sciré sia solo un refuso per "Scirea", un troncamento, come quando dici (errando) Panamà invece di Pànama.
1 commento:
...chi legge Cortàzar (mica Cortazàr!) merita sempre di esser letto...
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