[Incipit – perché c’è sempre un incipit. Nel periodo natalizio compravo e leggevo Utopsia, di Dario Falconi. Tre mesi dopo, mentre lavoravamo penna a penna al primo palingenetico numero di Prospektiva, l’autore di quel libro si avventurava in losangeline lande per soddisfare un brassicolo infantile desiderio del qui vostro.
Questi pensieri sparsi su Utopsia cadevano proprio nel mezzo.
Ma nel mezzo c’era anche Alfred Barnard. E poco tempo. Ora ce n’è di più.]
Potrei dire, vestendo i panni di Monsieur de La Palisse, che le Parole sono importanti.
E che “esordiente”, spesso e volentieri, non fa rima con “alle prime armi”: ne è dimostrazione il carattere tutt’altro che cheap di certi scritti, lontani mille miglia di una didascalicissima subitanea comprensibilità, da quell’ideale estetico ed universale tout court che Kundera ha identificato col kitsch.
Poi, però, Nanni mi schiaffeggerebbe.
Perciò sottolineerò l’importanza delle Parole dariofalcòniche (quelle che affollano le pagine di Utopsia: Riesumazione dell’umana azione) scomodando il Davàr, la Potenza creativa del lessema, capace di imprimere alla Realtà sfaccettature millemilavoltemente differenti.
Sono Parole, quelle Utopsiche, che ti pigliano ai fianchi con bellica certosinità. Da un lato t’inebriano con la scandita musicalità, con la loro ritmicità tribalancestrale; dall’altra strappano commossi plausi con il loro carico semantico.
Utopsia, che si dica da subito, è un libro per cultori, per chi sinceramente ammira lemmi sottostimati ed ingiustamente inutilizzati: labilità, il verbo innervare (raro trovarli sullo stesso foglio, figuriamoci nella stessa riga: in Utopsia succede anche questo, a pagina 20), atarassia e crocicchio, protervia, una qualsiasi voce del verbo soverchiare.
Una ratatouille parolòfila, quella dariofalcònica, congeniale ai palati di chi apprezza l’esercizio stilistico, di chi ricerca la metafisica metaforizzazione, in ultima istanza di chi è famelico di scrittura a prescindere dal dipanarsi di un plot, dall’avvicendarsi di personaggi, da sensazionalistici assalti all’arma bianca verso il climax.
Utilizzo terminologie gastronomiche non a caso: “Non sopporto chi legge cose insopportabili. E chi mangia cose immangiabili. Leggere e mangiare sono bisogni primari. Anzitutto mangiare cose leggere. Parla come mangi? Macché, mangia come leggi: una costituzione di gusto giuridicamente riconosciuto.”.
Così, tanto per usare un ellenismo, direi che in Utopsia pullulano epifanie – nel senso Joyciano del termine.
“Se oggi la nostra beneamata televisione scomparisse ed al suo posto s’avverassero palinsesti inverosimili di intellettuali, scrittori, pittori, cantautori, gondolieri e pifferai, mio figlio che nasce domani verrà a reclamarmi buone domeniche in fucine di cucine cerebro-lesse di patate gnocche in ragù triti e ritriti? Cari Catoni del catino avete preso una cantonata, ma sono abbastanza melanconicamente giovane da supporre che non lo sapevate”.
Ma poi mi verrebbe da aggrapparmi anche a certi francesismi; divertissement, ad esempio, perché di divertissement parliamo quando, per magia, il mondo alla rovescia si capovolge, ed i flussi migratori sono da Nord a Sud e la malavita è squisitamente piacentina – Dialogo tra una degente d’una clinica psichiatrica ed un infermiere, o quando per una coincidenza il destino imbrocca sentieri inaspettati – La commedia incredibile d’un uomo col tic scambiato per un fascinoso casanova e la tragedia di una donna vilipesa dalla sua disattenzione.
Mot d’esprit o boutade, poi, che in Utopsia fanno capolino in ogni singola pagina.
Ed ancora – anglofilisticamente, stavolta – snapshots: sul provincialismo – che subodoro civitasvetulino –, come quando “asserragliato ad una panchina diroccata, rovina sui miei sensi annebbiati un perentorio “ti amo, Piské” che strappa un sorriso smunto ingelosito. Ingolosito da quell’epigrafe arcaica d’un coattissimo ellenismo.”; ed ancora sull’antipolitica – che strasubodoro civitasvetulina – di uno scambio di battute fin troppo eloquente: “Noi siamo riformisti di sinistra e vogliamo il bene della nostra città”, ciancica sguaiata una incipriata amazzone combattiva. “Tu che fino a ieri facevi la comunista, oggi stai coi fascisti!” risponde una militante – così si definisce – e non si capisce bene di che cosa.
In ogni singola riga di Utopsia riecheggia un’attenzione talmente maniacale per le scelte lessicali che ti viene da ripensare a Calvino quando diceva che scrivendo non facciamo altro che cristallizzarci e prepararci ad essere eterni.
Come eterno deve risuonare il monito, dariofalconicamente rimarcato, che le parole… beh, le parole sono importanti.
E che “esordiente”, spesso e volentieri, non fa rima con “alle prime armi”: ne è dimostrazione il carattere tutt’altro che cheap di certi scritti, lontani mille miglia di una didascalicissima subitanea comprensibilità, da quell’ideale estetico ed universale tout court che Kundera ha identificato col kitsch.
Poi, però, Nanni mi schiaffeggerebbe.
Perciò sottolineerò l’importanza delle Parole dariofalcòniche (quelle che affollano le pagine di Utopsia: Riesumazione dell’umana azione) scomodando il Davàr, la Potenza creativa del lessema, capace di imprimere alla Realtà sfaccettature millemilavoltemente differenti.
Sono Parole, quelle Utopsiche, che ti pigliano ai fianchi con bellica certosinità. Da un lato t’inebriano con la scandita musicalità, con la loro ritmicità tribalancestrale; dall’altra strappano commossi plausi con il loro carico semantico.
Utopsia, che si dica da subito, è un libro per cultori, per chi sinceramente ammira lemmi sottostimati ed ingiustamente inutilizzati: labilità, il verbo innervare (raro trovarli sullo stesso foglio, figuriamoci nella stessa riga: in Utopsia succede anche questo, a pagina 20), atarassia e crocicchio, protervia, una qualsiasi voce del verbo soverchiare.
Una ratatouille parolòfila, quella dariofalcònica, congeniale ai palati di chi apprezza l’esercizio stilistico, di chi ricerca la metafisica metaforizzazione, in ultima istanza di chi è famelico di scrittura a prescindere dal dipanarsi di un plot, dall’avvicendarsi di personaggi, da sensazionalistici assalti all’arma bianca verso il climax.
Utilizzo terminologie gastronomiche non a caso: “Non sopporto chi legge cose insopportabili. E chi mangia cose immangiabili. Leggere e mangiare sono bisogni primari. Anzitutto mangiare cose leggere. Parla come mangi? Macché, mangia come leggi: una costituzione di gusto giuridicamente riconosciuto.”.
Così, tanto per usare un ellenismo, direi che in Utopsia pullulano epifanie – nel senso Joyciano del termine.
“Se oggi la nostra beneamata televisione scomparisse ed al suo posto s’avverassero palinsesti inverosimili di intellettuali, scrittori, pittori, cantautori, gondolieri e pifferai, mio figlio che nasce domani verrà a reclamarmi buone domeniche in fucine di cucine cerebro-lesse di patate gnocche in ragù triti e ritriti? Cari Catoni del catino avete preso una cantonata, ma sono abbastanza melanconicamente giovane da supporre che non lo sapevate”.
Ma poi mi verrebbe da aggrapparmi anche a certi francesismi; divertissement, ad esempio, perché di divertissement parliamo quando, per magia, il mondo alla rovescia si capovolge, ed i flussi migratori sono da Nord a Sud e la malavita è squisitamente piacentina – Dialogo tra una degente d’una clinica psichiatrica ed un infermiere, o quando per una coincidenza il destino imbrocca sentieri inaspettati – La commedia incredibile d’un uomo col tic scambiato per un fascinoso casanova e la tragedia di una donna vilipesa dalla sua disattenzione.
Mot d’esprit o boutade, poi, che in Utopsia fanno capolino in ogni singola pagina.
Ed ancora – anglofilisticamente, stavolta – snapshots: sul provincialismo – che subodoro civitasvetulino –, come quando “asserragliato ad una panchina diroccata, rovina sui miei sensi annebbiati un perentorio “ti amo, Piské” che strappa un sorriso smunto ingelosito. Ingolosito da quell’epigrafe arcaica d’un coattissimo ellenismo.”; ed ancora sull’antipolitica – che strasubodoro civitasvetulina – di uno scambio di battute fin troppo eloquente: “Noi siamo riformisti di sinistra e vogliamo il bene della nostra città”, ciancica sguaiata una incipriata amazzone combattiva. “Tu che fino a ieri facevi la comunista, oggi stai coi fascisti!” risponde una militante – così si definisce – e non si capisce bene di che cosa.
In ogni singola riga di Utopsia riecheggia un’attenzione talmente maniacale per le scelte lessicali che ti viene da ripensare a Calvino quando diceva che scrivendo non facciamo altro che cristallizzarci e prepararci ad essere eterni.
Come eterno deve risuonare il monito, dariofalconicamente rimarcato, che le parole… beh, le parole sono importanti.
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