24 settembre 2012

In nomen omen, e amen.

Bisognerebbe davvero essere rapidi come bolidi e sinuosi come bisce per sdrucciolare lontani un palmo almeno dall'irritante quanto annosa minaccia omofonògrafa che incombe - come certi funghi che rendono le formiche zombie non appena gl'assalgono il cervello - su quelle ròbe di carta o pìcsel che si fan chiamare, letterariamente, riviste: la minaccia, giustappunto, del puzzo di banalitade, di finire per essere, o per fare, letterariamente e letteralmente, ròbe viste. E riviste. E riviste. E riviste.  
Ma è un pericolo del quale bisogna prender coscienza, se sei un pollo e vai a far lucha de pollos, se siete abbastanza filocaraìbici per capire di cosa stiam parlando, lo sai bene, quel che t'aspetta, mi dirai tu, amico avicolo: sempre di colpi di becco, e speronate assassine, e rizzar di creste parliamo, badabèn. 

Non lo so di chi è l'intuizione brillantissima, devo averla letta da qualche parte e ora non mi ricordo dove, ma è davvero difficile inventare qualcosa di nuovo: anche la letteratura, in sé, se ci pensi, a dar retta a Frye, poi, non è che tutt'un ripetersi d'undici topoi, generiamo cloni che si riproducono micologicamente, e non se n'esce, amico mio.
La chiave è nell'interpretazione del ruolo.

O forse dovremmo prenderla così com'è, e rassegnarci di fronte all'ineluttabilità: capita che una rivista sia già vista e rivista, e che in una serata nomàta Rivisticidio si compia una mezzaspècie di eccidio del concetto stesso di rivista: nomen omen, e amen.

Ora è successo che un venerdì di settembre, alla Libreria Altroquando di Roma, una bella libreria invero, Federico Di Vita si sia pigliato la briga di organizzare una - come vogliam chiamarla? - kermesse, anzi no meglio grangalà, anzi rendez-vous, no, guarda, un confronto, o forse uno scontro, un melting pot, ecco, un melting pot forse no, diciamo una festa di presunte riviste presuntamente letterarie provenienti da quella zona d'ombra che a tutti - presumo - piace chiamare underground.

C'erano inutile opuscolo letterario e Follelfo, CadillacMag e The Trip, c'eravamo nojaltri di Prospektiva, e poi Taccuino all'Idrogeno, e Costola, sì, eravam questi.
E abbiam fatto che, essenzialmente, leggevamo delle cose. 
Una manciata di minuti a testa, e leggevamo. Racconti. Spezzoni. Ròbe così.

Matilde Quarti di Follelfo ha letto un racconto che si intitolava Le navi ribelli di Urano, di Matilde Quarti.
E poi Pippo Balestra un altro racconto, Tutti morti, divertente davvero, non è su nessun numero di Costola, che è la rivista che Pippo dirige, e niente: il racconto era di Pippo Balestra.

Mi son perso molti degl'altri, son sincero e vieppiù tabagista, un tabagista sincero regge venti minuti e senza starsela troppo a raccontare se la va a sfumacchiare, nondimeno con un quesito in testa: perché facciam riviste? Per chi facciam riviste?
E soprattutto: quando poi ci troviamo a leggerne dei brani in pubblico, agli altri, alle altre riviste, qual è il criterio con cui scegliamo il brano da proporre?
Dovrà essere significativo della linea editoriale della rivista? Del mood della redazione? O del nostro, capetti in pectore, che ci prendiam la briga di spaccarci il culo e mi sembra pure giusto, un po' di sano solipsismo?

Cerchiamo voci nuove, pubblichiamo brani sperimentalissimi che crediamo espressione della narrativa nuova giovine e spensierata, andiamo proclamando.
Poi, ce la leggiamo a voce alta.
Finiamo per diventare noi, la rivista: nomen. Omen. E amen. 
Forse dovremmo prenderla così com'è, rassegnarci di fronte all'ineluttabilità, così è stato e così sempre sarà, ròbe già viste, le riviste, ti pare che stiamo a scandalizzarci se in una serata nomàta Rivisticidio si sia compiuto una mezzaspècie di eccidio del concetto stesso di rivista?

Io, un giorno, poi, vorrei fare un numero di Prospektiva con testi scritti da gente che non solo di mestiere non scrive, ma che non gl'è mai neppure passato per la testa, di scrivere un pezzo per una rivista. E poi lo farei leggere a voce alta a gente che non solo di mestiere non legge a voce alta, ma che non gl'è mai neppure passato per la testa, di leggere a voce alta un pezzo pubblicato in una rivista.
Ma magari, magari è una cosa già vista e rivista, vai a capire.


4 commenti:

matteo ha detto...

Salve, complimenti per il pezzo. Le scrivo a nome della redazione di Vavel, giornale online. Le andrebbe di collaborare e pubblicare qualcosa secondo suoi tempi/impegni? Se interessato per favore scriva a matteo.gallo@vavel.com. Buona giornata

pippo ha detto...

Fabrizio,

avrei voluto risponderti subito con tutta una questione ma poi ho pensato che forse non avevo ben capito questo tuo post e allora mi sono fermato alla parte più inventata che mi è venuta in mente. Tempo fa, mi ero immaginato un racconto di un pittore che quando finiva un quadro guardava lo straccio su cui aveva pulito i pennelli e ogni volta si accorgeva di preferirlo al quadro stesso. Quindi poi aveva cominciato a fare quadri nello stesso modo in cui puliva i pennelli nello straccio ma niente da fare. Da una parte c’era il quadro e dall’altra parte c’era lo straccio. Ogni volta preferiva lo straccio.
Però poi non sapevo come finire quel racconto lì, magari un giorno lo finirò.
Però adesso mi è venuta in mente questa cosa di uno che va dal macellaio e gli chiede: hai mai pensato di scrivere per una rivista di quelle letterarie, di quelle underground? E il macellaio risponde certo che no, io macello, sono sensibile e c’ho un cuore grande come un bove ma mi limito a macellare. E il tizio, probabilmente un rivistaiolo, diciamocelo, gli dice: bene, scrivimi qualcosa per una rivista, voglio fare una rivista scritta da persone che non scriverebbero mai per una rivista.
Così il macellaio comincia a scrivere un qualcosa per la rivista e quando il rivistaiolo torna per comprarsi la sua carnazza il macellaio gli dice: uéi, ho scritto qualcosa per la tua rivista. E il rivistaiolo non è per niente contento perché il macellaio gli aveva promesso di non aver mai voluto scrivere niente per una rivista.
Non so se la cosa del pittore c’entra con quella del macellaio. Non so nemmeno bene se questa cosa tutta c’entra con quel di cui tu parli nel tuo post qui sopra, però ho un amico ingegnere robotico, (c’è tutto un palazzo qua a Genova che lavora al braccio di un robot complicatissimo). Ho un amico ingegnere robotico che scrive benissimo e se ne frega. Poi ho un altro amico che non so bene che lavoro faccia, principalmente è molto paranoico, comunque scrive benissimo anche lui e anche lui se ne frega.
Quando vuoi fare quel numero di prospektiva fatto in quel modo dimmelo così provo a chiedere loro se hanno qualcosa di bello da darti.

Ciao
pippo di Costola

Fabrizio Gabrielli ha detto...

amicoh pippo, hai centrato in pieno quel che volevo dire nell'ultima parte, anche se ovviamente un esempio di quel tipo di contenitore, un contenitore in cui son-tutti-scrittori, ce l'abbiamo già, basta guardare i socialcòsi, ci son bravi e meno bravi, l'importante è scrivere, dopotutto, macellai ingegneri robotici e paranoici d'ogni fattezza.
Pel resto, è una ròba che davvero m'interessa sapere: voglio dire, per chi le facciamo, 'ste riviste?
Io, ad esempio: peer macellaro.

pippo ha detto...

cacchiarola ti avevo scritto una risposta ma non a quella domanda.
mi rifarò