08 ottobre 2009

Sul perché vedere Videocracy o non vederlo è praticamente uguale.

Che poi ecco, avrei voluto sproloquiare più a lungo sulla fresca visione di Videocracy ma già stamattina, a qualche ora di distanza, sento d’averlo metabolizzato in maniera abbastanza indolore, e perciò mi limiterò a qualche appunto sparso.

Tanto per cominciare, non crediate di rientrare nella sparuta schiera degl’eletti se sarete, come son stato io, tra quelli che hanno trovato una delle sole settanta sale in cui viene proiettato ad una distanza ragionevole da casa (a me è capitato di vederlo a Tarquinia, sala 4 del cinema Etrusco, quanto di più scomodo le mie cineaste chiappe abbiano mai sperimentato).

Videocracy non è un attacco alla videocrazia, come il titolo sembrerebbe suggerire (o meglio, come le incensature ricevute da certi schieramenti intellettuali ai quali pensavi? credevi? di poter dar credito parevano suggerire), né una palese (tantomeno arguta) critica al sistema che sulla videocrazia poggia.
Videocracy al contario è un panegirico.
A chi si sbatte per pixellizzarsi sullo schermo.
E a chi quel sistema l’ha creato, da imprenditore prima che da politico.
Questo, quantomeno, il messaggio che emerge alla mercé dell’italiano medio.

Perché in Videocracy non c’è ficcanza.
In Videocracy non c’è nulla di più di quanto già sappiamo.
In Videocracy, ciò che già sappiamo viene perdipiù raccontato con le parole che chiunqu’altro avrebbe utilizzato.

Si direbbe: tanto rumore per nulla.
Sembra più una pellicola destinata ad un pubblico non-italico.
Tipo agli svedesi, che si sa, son genti semplici, che s’accontentano di poco.
Per dire, l’Ikea se la sono inventata loro, per dire.

[dopotutto, io che pensavo d’uscire col cuore ammaccato come una pesca, ho avuto quel che mi meritavo, dopotutto. Scopro infatti solo grazie al Gandini che nel ficherrimo video di “Meno male che Silvio c’è” compaiono due-e-dico-due concittadine. Una delle quali, ufficialmente, mutannara.]

Nessun commento: