02 novembre 2008

Racchie, Triccheballacche e Putipù


Quando a sei anni, da enfant prodige del sax contralto, mi dissero che se volevo ero pronto per debuttare con la banda del paesello, un sentimento di inadeguatezza - che all'epoca, avevo sei anni, non sapevo si chiamasse così e s'appalesava con una maledetta sensazione d'essere lì lì per farmi la pipì sotto -, sopraggiunse malandrino.

Però mi bastava pensare alla divisa, al cravattino, al maglioncino, al cappellino, alle majorettes e subito diventavo euforico.
Eppoi c'era una cosa che m'attirava più di tutte.
La Racchia.

La Racchia era l'alter-ego della Banda, che da seriosa e professionale si trasformava in strombazzante masnada mascherata nei giorni più goderecci e festaioli.
Martedì grasso in testa.

Faceva strano vedere il tuo maestro di musica indossare un camice bianco e sventolare al cielo un mestolo da cucina col quale orchestrava gli strumentisti. Ed anche vedere, tra l'oboe e la grancassa, spuntare scolapasta e tubi da stufa in ghisa, mattarelli e grattugie, fischietti pentole e coperchi.
Eppoi c'erano il tricchebalacche ed il putipù.

Ora, io non lo sapevo nemmeno che si chiamassero triccheballacche e putipù.
Il primo lo chiamavo "forbice a tre braccia", ed il secondo "quello che fa phtruu, phtruu".
Poi, da grandicello, ho scoperto che quel tamburo a frizione che fa phtrru, phtruu è il putipù, anche detto caccavella.

Chi lo sa se esistono ancora La Racchia, quel Triccheballacche e quel putipù.
Arriverei a comprarlo io, lo mettessero all'asta, quel meraviglioso, affascinante, vintagissimo putipù.
Per tornare a fare, nella solitudine di casa mia, phtrru, phtruu.

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