04 luglio 2013

100 giorni

C'era in me, in quel tempo, la convinzione d'avere tra le mani tutto il necessario, che nulla mi mancasse, che ogni desiderio fosse a portata. Per quel che mi sembrava troppo ambizioso, ecco, per quello avevo imparato a sperimentare una serena rassegnazione zen. A diciott'anni? A diciott'anni.

Fino ad allora, il coordinato l'aveva fatta ridere - mi piaceva quando rideva, di mattina presto, gli occhi cisposi, le piaceva mi piacessero la sua tuta da ginnastica, le efelidi e gli occhiali appannati dell'ultima sigaretta prima della campanella. 
Quel giorno, un giorno di cattivi propositi, d'entusiasmo immotivato, d'adolescenza fluorescente, lo sgretolamento silenzioso della terza cifra le aveva come impresso un'accelerazione nell'istinto, trascinandola, nella fanghiglia brodosa di un'appendice di primavera, coi peschi in fiore e tutto, su quei sentieri in cui un labbro morso con troppa mellifluità, un ardore inatteso, ti lacera le vesti, lasciandoti scoprire nudo.
Pure le mutande, combinate?, m'aveva chiesto, una domanda che non si fa, non quando s'è come fratello e sorella, sorellina mia.
Mutande e calzini, di rimbalzo io.
Era solo la mia compagna di banco - va bene, le avevo scritto una canzone; va bene, avevo provato a baciarla su un treno notturno che sferragliava verso Parigi; va bene, ero roso di gelosia quando in un albergo della banlieu c'eravamo devastati di fumo e le cose avevano preso una piega che non m'aspettavo; va bene, il coordinato della Broke, pantaloni baggy e felpa e magliettina e cappello, quando li indossavo tutti insieme, la faceva ridere.
Ma quel giorno, dopo quella smorfia, al pranzo dei cento giorni, e dire che avevo deciso di ubriacarmi e mangiare come se non ci fosse un domani e fumare settecentomila sigarette e ballare un lento con la profe di storia dell'arte facendole venire le guance rosse per la vergogna, tanto ci saremmo divincolati stretti, ecco, dopo quella smorfia: me lo son mica più goduto, il pranzo dei cento giorni. Nella testa mi rimbalzavano soltanto lei, le sue efelidi, la tuta che aveva fatto spazio a un vestitino di lana, certi brutti pensieri, quella voglia di provare a vedere cos'è che succede, poi, se certe rassegnazioni zen provo a buttarmele alle spalle.

Tredici anni dopo, una sera, ieri sera, c'erano altre tre cifre che mi si sgretolavano sotto gli occhi.
Cento s'accorcia a novantanove: e poi saranno novantotto, settantacinque, quarantuno, ventidue, dodici, si sgretolerà ancora un angolo, si smusserà un'ulteriore cifra, tre, due, e poi sarà, Livia, sarai..
Vedi, Livia, se dovessi dirtelo c'è ancora in me, come tredici anni fa, quella convinzione d'avere tra le mani tutto il necessario, che nulla mi manchi, che ogni desiderio sia a portata. In quanto alle ambiziosità, per quelle ho imparato a non rassegnarmi mai, ch'è sbagliato, che non si fa, me l'ha insegnato lei, dovrei dirglielo un giorno di questi, e poi raccontarle di te.
Se c'è una cosa che m'ha insegnato, è che a volersi davvero scoprire immortali bisognerebbe sentircisi sempre, immortali.
E se scrivo e ho fatto te, dopotutto, non è stato che per provare a guadagnarmene almeno un pezzetto, di quell'immortalità.


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