12 novembre 2012

Dell'araldica come scienza esatta (e del perché in generale le cose che si pronunciano goicoecea non fanno bene al fùtbol)

Io, a voler cercare delle ragioni profonde, cerco sempre sostegno nell'etimologia, perché sono convinto che siamo quel che diciamo; e nove su dieci funziona.
Per trovare lenimento dagli sganassoni raccattati ieri, però, nel dèrbi romano, ecco, l'etimo non ha saputo dirmi nulla di confortante, e allora ho deciso di provare con l'araldica, che mi sembrava una buona panacea, volgere lo sguardo al medioevo, quando ancora non si giocava il dèrbi romano e secondo me si stava tutti meglio.

E bene: ho scoperto che lo stemma araldico dei Goicoechea è così composto:


Scudo classicamente ispagnuolo, con punta arrotondata in basso, nel canton destro presenta un grifone d'oro su campo blu, rimando a leggiadrie pennute commistionate con leonine aggressività; nel canton sinistro, su campo bianco, il simbolo della città di Madrid. 
Orbène, a spaventare (e apportare riconferme, vieppiù) non è tanto la bianchebbluèzza al centro dello stemma (inconfutabile segnale di collaborazionismo con la compagine laziale), quanto le otto croci ocra su campo granata, inequivocabile rimando (croci, giallo, rosso) (ma diononvòglia) alle sconfitte già palesatesi et ancorquanto da palesarsi.

Goicoechea è adattamento ispanofono della forma euskera Goikoetxea, significante "la casa in alto", forse in collina, lontana dai centri abitati, ramingo romito nel quale ci si auspica il ritiro anzitempo dell'arquero uruguagio, magari una con un bel salotto, nel quale custodire in teca (un po' come fece Andoni Goikoetxea Olaskoa, il macellaio di Bilbao, con gli scarpini coi quali aveva quasi reciso la carriera del Pibe de Oro) i guanti scivolosetti coi quali non è stato in grado di arginare l'offesa d'arme della punizione di Candreva.

E in ogni caso, che peste lo colga. 

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