21 ottobre 2010

Quadernini di traduzione: scrivere è una zafra.

Si dice che per chi traduce introdurre un forestierismo sia una confessione d'impotenza.
Dunque: c'è una parola che non ha una controparte, o quantomeno non una attestata, ed allora il traduttore ci scapoccia un po' su, poi dice massì, ma è così bella, ma è così significativa, fammela lasciare così com'è.
Impotente, altroché.

Nell'omofonia tra impotenza e in potenza si cela il cuore della questione.
In potenza, un forestierismo potrebbe anche darsi che l'arricchisca, una lingua, mica deve per forza annichilirla o svilirla, guarda per esempio l'ispagnuolo zafra.
Zafra viene dall'arabo antico safrah, significa viaggio, a Cuba chiamano zafra il lungo viaggio che compie la canna da zucchero prima e durante il processo in cui da canna si trasforma in zucchero.
Perciò è zafra la migrazione dei braccianti agricoli da piantagione a piantagione, è zafra il loro installarsi nel batey, è zafra il loro girovagare per l'accampamento avviluppati in un operoso andirvieni, è zafra svegliarsi all'alba coi machete affilati e recidere fusti, è zafra affastellare la canna raccolta, zafra è pure portarla verso i torchi, la canna raccolta, zafra è spremerla, zafra è far defluire linfa nei grossi contenitori di raccolta, melasse che poi viaggiano zafranti verso lo zuccherificio; zafra è la raffinazione, zafra è lo zucchero che s'allontana dall'ingenio ammonticchiato nei sacchi.

Quando sgombrano una cava, o una miniera, quando la dismettono, quando liberano trentatré poveri cristi intrappolati nelle viscere della terra, anche in quei casi si parla di zafra.

Son viaggi che spesso hanno un finale dolce.
Dolce come lo zucchero.
In potenza, ça va sans dire, non ci vedo alcuna impotenza nel dire che scrivere un libro è un po' intraprendere una zafra.

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