22 luglio 2010

I cani là fuori

Tornavo che erano già un paio di giorni da Torino, in tasca avevo I cani là fuori, di Gianni Tetti, e mi portavano a vedere un concerto segreto, uno di quelli che non sai dove ti ritrovi, ed io mi son ritrovato su una terrazza a Viterbo ad ascoltare Dente, una terrazza che dominava tutta la cittadina, manco fossi Gavroche quando passeggia sui tetti.

Ora.
Ci sono svariati denti, nel libro di Tetti, dicevo sui tetti di Viterbo mostrando i denti ad una signorina che da più piccola m'ammorbava sempre con una storiaccia sui chupacabras.
In sottofondo c'era Dente che cantava, io citavo i denti che stanno ne I cani là fuori di Tetti, quello con l'uomo-capra in copertina, i cani là fuori ululavano e scoprivo che niente cambia mai davvero: quella signorina capra era e capra è rimasta.
Caruccia, per carità, snella abbronzata e bionda. Però, ecco: capra. Il suo unico neo.

Ora.
Neo. Pubblicano bei libri, i tipi di Neo, Angelo e Francesco, son coraggiosi come gl'eroi senza macchia. E senza nei.
Ne i cani là fuori, a pagina sette, c'è la polisemia.
La polisemia è come quelle ragazzette interessantissime che ti vien da corteggiarle ogni secondo, facendole capire che tu li conosci, i segreti loro, che tu lo sai, quel che le piace, e poi arriva un Tetti qualsiasi e stac, se la tromba, la polisemia, sotto i tuoi occhi, nonostante le professioni d'intenti o le gran lettere a caratteri fitti che le hai spedito, alla polisemia, di quelle che accendono il cuore di Madame Cloros ma anche no, per dire.

I cani, quelli là fuori ma pure quelli là dentro, dentro al libro di Tetti, sono uni e trini. Sono i mammiferi domestici della razza dei canidi. Sono le persone spregevoli. E poi sono pure un po' l'innesto meccanico della morte.
Che a pensarci, son altri gl'animali a cavallo dei quali vien l'idea della morte: i ratti, le mosche, i vermi, mica i cani. Certi dittatori cileni. Attraverso gl'occhi del Camaleonte, passa alle volte, la morte. Ma mai pei denti dei cani.

Una cosa che fanno i cani, e che facciamo pure noi, oltre a morire, è parlare, come Vito che dà certi ululati che férmati, Vito che fa l'opinion leader ed ha un grande disegno - rimarremo solo noi e i cani, scrive Tetti - proprio come certi politici che abbiamo noialtri, cani nell'accezione numero tre a pagina sette: chi fa male il proprio lavoro.
Ed un'altra cosa che ci accomuna ai cani, poi, è che riconosciamo le donne nostre dall'odore. Ed il nemico nostro, dal puzzo. Davanti al nemico, lo sappiamo che ci è nemico, ne subodoriamo la malvagità nel paltot, digrigniamo i denti perché ci sentiamo minacciati, come facevamo nell'età della pietra e fors'anche prima.
Ed allora siam mica troppo diversi, noialtri, dai cani, quali cani?, quelli là fuori, va da sé.

Altra cosa che facciamo noi ed i cani pure: vomitare.
I cani vomitano in pallottole grumose i loro stessi peli. E m'è venuto da pensare - c'è una scena in cui una madre vomita fragole, un figlio denti ed il vento spazza via i capelli dalla testa, uno ad uno - che c'è tutta una simbologia dei sogni nella quale perdere capelli e denti è cattivo presagio, mentre se sogniamo un cane da Jung a Freud la teoria è unanime e tutto sommato positivista: il doppelgänger selvaggio scalcia per sortire, e se poi i cani onirici son dobermann, ecco, è pure più intuibile.

Il futuro che prospetta Tetti, ed il presente che ha ritratto Tetti, oltre al fascino della mitragliata allitterazione, colpisce pel suo essere nero, nero come il crine del dobermann, o come la pelle nera della schiena di una puttana nera.
Ed il nero, si sa, oltre a snellire, nutre un ascendente formidabile sul lettore.
Tetti ti risucchia in un circo Togni popolato di bagasce ed avventori che ci si bevono una birra insieme subito dopo per farle sentire meno bagasce, di papponi e profittatori, faccendieri e cravattari, cani che correrrannoci alle case e per avventura non solamente l'avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone, come nella storiella di Cepparello.
Genti la cui malvagità, forse, dipende dai denti (lo dice pure il padre del protagonista d'un racconto, che la colpa è tutta dei denti, ed in quel racconto non c'è musica, che dimora altrove, da Adamo alle cassette di Celentano alla sinfonia n. 8D 759 di Schubert, non c'è musica ma latrati in sottofondo, e non di Dente, ma dei cani).
Genti che s'aggrumano in bar periferici nei quali si bevono vini di Sennori un po' spuntati o birra Ichnusa, le cameriere sono bellissime ed hanno le mani fredde, e fuori non c'è altro che cani, i cani più furiosi che tu abbia mai sentito, son là che t'aspettano per azzannarti insieme alla Mamma del sole, che gira e se ti becca non so cosa ti fa, ma è una cosa brutta.

Racconti, quelli di Tetti, che ti fan digrignare le formazioni ossee ricoperte di smalto radicante nella mascella e nella mandibola.
Che ti portano fino in vetta delle cime montuose aguzze che si stagliano in Gallura.
Nei quali s'incaglia l'estremità dell'àncora del lettore.
In ogni caso, racconti che hanno a che fare coi Denti.
[èssi bòno, caro Tetti, faccela trombare un po' pure noi, la polisemia.]

Gianni Tetti
I cani là fuori
pagg. 193
NEO Edizioni, Castel Di Sangro (AQ), 2009

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