28 aprile 2010

Scriversi addosso

Penserai mica ci credessi, bella mia, quando sentivo gli scrittori affermare che le fisse più stronze poi sempre arrivano scudisciando il culo a Morfeo, e picchiano duro in testa, duro e forte, stronzèrrime anzichenò, le fisse notturne.
Se dessi adito ad ogni pensiero, mi dicevo, che mi perfora le cervici senza preavviso, di notte, parlandomi delle mie manie, delle mie fisse, non finirei forse per annegare nelle paludose melme della narrativa ombelicale? Dello scriversi addosso? [1]

Mi son dovuto ricredere: trapianto di convinzioni, definiscimelo pure così.
Rimozione chirurgica d'aprioristica incredulità.

Lo sai cosa mi raccontava sempre, un amico mio? Che ci son degl'espedienti, tipo utilizzare la formula "mi raccontava sempre un amico mio", per mezzo dei quali se pure scrivi qualcosa di dannatamente ombelicale riesci, paradossalmente, a deombelicalizzarlo: prestidigitazione deittica, ripeteva sempre, io divento tu e tu, che saresti io, stai a vedere che ti ci ritrovi, in quel che sproloquio, stai a vedere che ti ci immedesimi, in certe ròbe che son successe a me, e penserai mica sia difficile, bello mio, è una metodica operazione di espianto-impianto, chirurgia sintattica: trapianto.
"Trapianto di referenza deittica", diceva l'amico mio.

Me la sono appuntata su una mano, questa del trapianto.
Deve essere stato lì, che ho cominciato a scrivermi addosso.
E a rileggerla, questa del trapianto, m'ha lasciato perplesso, come dice Primo Brown in quel pezzo, Nelle mani.
Nelle mani: una penna.
Sulle mani: l'inchiostro.
Sotto al cuscino tengo una penna: ci traccio i contorni delle fisse bastarde che riesco ad afferrare per la coda prima che svaniscano nell'opalescente baluginio della notte. Scalciano come bradi maremmani smandibolando, dovresti vederle, bella mia: mi ci aggrappo e le rendo (semi)immortali.
Anche se tira un po', l'inchiostro secco sulle mani.

Ti sei mai scritta addosso, bella mia?
Penserai mica ti creda quando dici "giammai", che io l'ho visto il tuo tatuaggio, sai, l'ho visto sull'anca, l'ho scorto per un frammento di secondo, e già mi manca.
Volevo farmi vergare, in bella calligrafia, "catala tregua tregua espera" sul braccio destro.
Ma i tatuaggi son per sempre, e mica ci si può scrivere sempre addosso, bisogna adattarsi ai contesti, ai testi, alle stagioni, come le scarpe.
Ora ho un paio di scarpe bianche irrorate di lettere nere, se t'avvicini con l'occhio ci scorgi "catala tregua tregua esp". Non ce l'ho fatta: stavo per finire la frase quando m'è cambiato periodo sotto il culo.
Bisogna sapersi adattare ai contesti, ai testi, bisogna essere ca-ma-le-on-ti-ci, non lo dicevi tu, bella mia?

Capita che invece di dormire: penso.
E non ho un espediente che sia uno né per smettere di farlo, né per riuscire a farlo con metodo.
Dice allora: piglia un'agenda e nascondila sotto il cuscino, vicino alla penna.
Così poi i bozzetti delle fisse bastarde che si mettono in posa col sorriso stronzo di chi t'ha rovinato il sonno li lavi mica via con uno spruzzo di sapone rosa.
Son là, e là restano.

Lo sai cosa mi raccontava sempre, un amico mio? Che ci son delle furbate, tipo posizionare la sveglia dall'altra parte della stanza, per evitare che alle cinque e quaranta, quando il trùuntrùuntrùun t'accarezza le orecchie con la delicatezza d'un razzo katiuscia incastricchiato tra le ante della persiana, tu riesca con gl'occhi incispati a spegnerla, la sveglia, sfanculando d'un sol colpo buoni propositi, rasature assolutamente necessarie, improrogabili sferragliamenti ferroviari, cadzi e madzi.
M'ha solleticato un'afori(a)smatica considerazione, l'amico mio che già me lo vedo contare i passi di sicurezza tra 'l giaciglio e l'attrezzo trùuntrùunnoso.

"L'eccessiva libertà sublima mica il potenziale: lo annichilisce, anzichenò."

Perché si dà il caso che se la sveglia è a portata di mano, va a finire che non glielo faccio mica fare, alla sveglia, il lavoro per la quale la pagano.
Lei tipo: trùuntrùun. Io tipo: la spengo.
E se mi vien voglia di scrivicchiare, d'appuntarmi una nota, ed ho la penna a portata di mano e l'agenda sotto il cuscino, tutte le libertà di questa terra, magari poi la lascio sfuggir via con troppa benevolenza, la scodinzolante et smandibolante fissa bastarda, ché tanto t'acchiappo tra cinque minuti, le dico, fuggi mica, ora chiudo un po' gl'occhi e ci penso, e quando li riapro, cinque minuti non uno di più, vedrai tu, che foto ti scatto.
E poi gliela scatto colca: annichilito dall'infinitamente possibile.

Lo sai cosa mi raccontava sempre, un amico mio?
C'erano due bagni, in casa. Uno di fronte alla sua camera da letto, uno al piano inferiore. Se gli scappava di pisciare e si limitava a strisciar vipèrico verso la stanza di fronte, con le palpebre incollate faceva degl'arabeschi sul muro che férmati, e al mattino successivo sapessi che sorpresa, che stupore, che sguard'allibiti.
Se invece si pigliava la briga di scender le scale, attraversare il corridoio, aprire la porta, richiudere la porta, era oramai di già sveglio, e faceva delle pisciate razionali, geometriche, ad arte, che quasi si stava sulle balle da solo, a pisciar con cotal saccenza.

E allora, se con le dita arpiono per la coda una di quelle stronzèrrime fisse, mi metto mica a scalciarmi di dosso il piumone, a posare i piedi nudi sul pavimento, a camminar fino all'angolo opposto della stanza, a sedermi alla scrivania, ad accender la luce: la spiaccico su un post-it, al buio, con gl'occhi serrati. Me la lego con fili di nero di seppia all'anulare sinistro. Ne stampo l'impronta sul quinto metacarpo. Al volo, d'amblé.

E c'ha fascino o no, bella mia, scarabocchiarsi il dorso d'una mano, pisciare arabeschi, fare i collage coi post-it e svegliarsi il mattino successivo con lo sbalordimento incrostato sulla schiena, come il sudore, realizzando d'averlo fatto un'altra volta, d'essersi di nuovo scritto addosso?

[1 Ora con un nuovo incipit, EM approved]


[NEXT COMING: OMBELIQUALITA']

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