23 novembre 2008

Il Senòrcodo

Gli uomini, perlopiù si lasciano governare dai nomi.
(G. Leopardi)

Ripetere una parola fino a fargli perdere completamente senso – fino a desemantizzarla, si dice, ma lo avrei scoperto solo anni dopo – è uno dei passatempi preferiti dei bambini.
Crescendo – allora sì – si dovrebbe badare di più alla sostanza, senza lasciarsi abbindolare dall’ipnotico fascino di una successione di sillabe, tanto più se foneticamente ostica, ad esempio un anglicismo. O un nome difficile, come quello del senorcodo.

Indispensabile per comprendere la morale – una morale c’è sempre – di questa storia è immaginare quattro persone sedute attorno ad un tavolo. Al centro del tavolo, scintillante nella sua misteriosa esistenza, un senorcodo. Uno di quelli grandi, sei o sette chili di peso.
Di basilare importanza sapere che i personaggi in questione, del senorcodo, prima di averlo sotto gli occhi, avevano a diverso titolo parlato e straparlato, tra loro ed alle spalle l’uno dell’altro, per tempi lunghissimi, quasi epici. Scontrandosi, financo. Brindando alla sua salute, addirittura! Sognandolo nelle lunghe notti settembrine, nientemeno!

Nelle rimembranze del più anziano di loro, la sola idea di avere un senorcodo adulto vivo tra le mani suscitava emozioni trascinanti e lancinanti. Ne aveva visto uno, una volta, di sfuggita, disegnato sull’uscio di un bar – o forse era un ristorante – in una città che lo disprezzava pur ospitandolo. Se ne era innamorato a prima vista, pur ignorandone la vera natura. L’anziano, istrionico, ne decantava le virtù – pur non conoscendole. Quante gambe avesse, di che colore fossero le ali – chiaramente se ne aveva – la dimensione del diametro e la lunghezza del naso – se di naso si poteva parlare.
Nonostante questo, nonostante i tanti, troppi pur, era lì, attorno a quel tavolo.

“Ora bisogna far sì che vada e si riproduca. Potrebbero nascere uno, cento, mille senorcodi, tutti bellissimi, crescendo trascinerebbero con loro le sorti di questa città che vanno risollevate”, continua il burlesco entertainer. “Decoreremo l’arteria principale con l’effige del senorcodo. Come in quella città, dove è impressa su tutte le porte dei locali. Ne beneficeranno tutti, i giovani, le donne, darà lavoro e prosperità, l’economia riprenderà a girare…”, continua imperterrito il vecchio, ormai in preda a deliri di onnipotenza, infervorandosi come nelle più accorate campagne elettorali.

“Io credo che non abbiate compreso perfettamente cosa è, ‘sto senorcodo…”, prova ad intervenire il giovane, ma viene interrotto appena all’inizio.
“Mi lasci finire, forse non mi sono spiegato”, il vecchio rubizzo in viso. “Deve sapere che quando ci fu la famosa siccità di chinotto, nell’estate del novantatre, il sindaco della cestistica ed il presidente del canile si ritrovarono. Seduti allo stesso tavolo, si guardarono negli occhi e si dissero: - La pacchia, l'è finì -. Per questo decisero di dar vita al ceppo senorcodiano e spargerne il seme per il mondo.”.
“Ma veramente”, opina il giovane, “non mi sembra sia propriamente andata così. Diciamo piuttosto che la figura del senorcodo si era resa necessaria, se non altro per fronteggiare il famorcodo, veloce, clonato in milioni di esemplari e poi sparso qua e là per il globo… E poi ne analizzerei l’aspetto psicologico e sociale. Può fare compagnia agli anziani, può far crescere intellettualmente i giovani. E magari può guidarci in un riavvicinamento alla cultura bucolica, al rapporto col mondo animale…”, ma il vecchio non lo ascolta neanche più, già da un pezzo.

Su un fazzoletto di carta ha scarabocchiato in maniera infantile uno scorcio di una via cittadina nella quale, passo dopo passo, spuntano come funghi porticine con senorcodi stilizzati disegnati vicino alla maniglia.
Senorcodo, senorcodo, senorcodo, senorcodo, fino a fargli perdere ogni residuo di significato.

Il giovane deve decidere su due piedi se urlare al mondo l’ignoranza altrui o rassegnarsi alla dura convivenza con chi, nonostante tutto, non vuole capire. Perché non può capire.
Lancia uno sguardo al senorcodo che, sorridendogli, sembra aver già fatto la sua scelta.
Mia nonna ripete sempre un detto: “E’ inutile predicà, predicatò, tanto a messa nun ce vengo…”.


EXCIPIT
Voi vorreste che io, descrivendo i ladri di cavalli, dicessi “rubare i cavalli è male”. Ma questo è noto già da un pezzo, anche senza di me.
(A. Čhecov)

1 commento:

Anonimo ha detto...

bravo Gabriele hai un ottimo talento nella scrittura